Dal momento che pare appurato che i blogghi non servano a una minchia (punto 4 delle Sacre Utilità del Blog, SUV: 1_creare discordia 2_incentivare l'anonimato seduto in poltrona 3_non essere letto 4_non servire a una minchia) tanto vale non dare troppa importanza a questo luogo virtuale ed approfittarne soltanto per proporvi i racconti cialtroni che fungono da palestra narrativa per la Prossima Volta: quello che segue è un tentativo di racconto breve e veloce, leggete, e commentate con insulti anonimi come da punto 2.
Per utili commenti dal vivo, Teto e Manse, conto su di voi.
Tutto cominciò di corsa. Lungo viale Sarca, e nessuno sapeva nemmeno come si fosse arrivati fin lì. C’era questo marocchino che correva a perdifiato, e dietro l’agente di Polizia del commissariato Cenisio Gemmi che tentava di stargli dietro. Arrivarono correndo e sembrava proprio se ne sarebbero andati correndo, il marocchino col piumino stracciato che perdeva piume sul marciapiede, Gemmi che aveva perso il berretto da gendarme e sudava rabbiosamente.
La gente guardava, allarmata, incuriosita, qualcuno pure divertito, và là lo sbirro che non ce la fa più. Ma crollò prima il marocchino: ad un certo punto, all’incirca all’altezza di Aldo, storica trattoria toscana lurida ed a prezzi popolari –particolare realizzato solo nell’immaginario di chi non ne era mai stato cliente- il magrebino s’inginocchiò a terra, spompato, e implorò.
Gemmi gli arrivò addosso come uno schiacciasassi, come una palla da demolizione che esagera nell’oscillazione e butta a terra anche i palazzi d’intorno. Ragazzi in pausa pranzo dall’Università Bicocca, che stavano pasteggiando chi da Aldo chi alla mensa della Casa Matta, centro sociale occupato studentesco, erano accorsi in strada attratti dal chiasso che l’evento stava suscitando, ed a quell’impatto dapprima risero di stupore. Gemmi stese a terra il marocchino con un calcio nei reni, poi cominciò a calciarlo sulle costole senza trattenersi, rubizzo d’ira in volto, sempre più forte.
Qualcuno gridò, picchialo piano, suscitando qualche risata e qualche commento d’approvazione o sdegno, ma Gemmi non sentiva niente, pensava solo a caricare ogni calcio più potente di quello precedente, a colpire in petto il nordafricano, mentre quello non riusciva più a respirare tra l’affanno e le percosse, e schiumava dalla bocca.
Vicedomini sopraggiunse ed arrestò la gazzella a pochi centimetri dal fuggitivo, scavalcando il marciapiede. Sulla volante con lui stava seduto mesto e tranquillo un altro marraca, in manette. Vicedomini sbalzò giù dall’auto e si mise a calciare pure lui lo sventurato staffettista marocchino.
L’adunanza civile cominciò ad insultare gli agenti in divisa, vermi, infami, ma quelli parevano sbattersene, pestavano senza far troppo caso alle condizioni del loro sacco di sfogo. Una Uno con sirena sul tettuccio accostò tranquilla al margine di viale Sarca, e ne scese l’ispettore Cristiano Camporosso. Guardò la scena, sorrise amaro e s’accese una Pall Mall blu. Un vecchietto gli si avvicinò chiedendo che avesse combinato il talebano, se fosse un terrorista, ma Cristiano rispose rassegnato: “Niente. Hanno rubato una macchina, lui ed il suo socio, ad Affori. Ed hanno stirato una bambina in Fulvio Testi. Il passeggero s’è consegnato subito, l’altro se l’è data a gambe. Cose che capitano, no?”, e s’avviò a quietare gli animi dei due agenti.
C’era un rombo caotico, quello provocato dalla troppa folla e precedente i disastri meteorologici o le catastrofi naturali. Cristiano ordinò ai due giovani sottoposti di mollare il marrakesh e caricarlo sulla volante, che il lavoro lo finivano i delinquenti onesti a San Vittore, non c’era bisogno di far indagare due agenti per percosse o abuso di potere. Ed appena il marocchino fu ammanettato e chiuso in macchina, arrivò la carica.
Al grido di fascisti, dei poveretti paladini di chissà che tipo di giustizia, come li avrebbe definiti poi Cristiano nel rapporto, assaltò i tre sbirri a calci e sassaiole. Gemmi rovinò quasi subito al suolo. Vicedomini mollò qualche cazzotto nella ressa, Cristiano cercò soltanto di farsi spazio intorno. Poi la schiera di guardiani dei guardiani arretrò disperdendosi. Qualcuno gridò: “È morto!”
E Vicedomini cominciò ad urlare. A piangere, ed urlare.
Gemmi era stato colpito ad una tempia con una pietra scagliata da qualcuno che per dogma politico odiava gli sbirri. Perché i delinquenti non odiano gli sbirri, ne hanno timore o li affrontano impavidi considerandoli merda, magari, o tentano in qualsiasi modo non onesto di farseli amici contagiandoli con la delinquenza ed il soldo facile. Ma alcune religioni partitiche ed extrapartitiche predicano l’odio allo sbirro, nemico del popolo, nemico della libertà. Alcuni politicanti non vogliono portare a processo le mafie, gli strozzini, gli assassini, le madri che massacrano i figli, o i pedofili, ma i poliziotti. Perché i delinquenti sono tutti vittima di un sistema sbagliato, mentre un ventenne che l’unico mestiere che abbia trovato giù in Ciociaria è stato venire ad indossare una divisa blu con un berretto da pirla in testa ed un cannone nella fondina a Milano è un fascista ed un infame. Perché al giornalista piace la rabbia di chi infiamma le strade, ma non piace il tutore dell’ordine che in preda al panico prema il grilletto. Perché lo sbirro ha più poteri e quindi più doveri di un cittadino normale, quindi stia in guardia, la guardia, i suoi guardiani stanno in agguato. E questo modo di pensare, anzi, di non pensare ma acquisire come proprio un ordine socio-politico interessato, Cristiano lo faceva imbestialire, perché faceva proprio il gioco ordito dai potenti, quel mettere l’uno contro l’altro i poveracci e distogliere l’attenzione dal giogo del controllo subliminale con sodomizzazione sociale inclusa. E nella sua testa stava prevedendo tutto con una oculatezza che l’avrebbe stupito, giorni dopo.
Era stato incredibile, pensò Camporosso mentre il cadavere di Gemmi veniva caricato sull’ambulanza a sirene spente, e Vicedomini prendeva a cazzotti un cestino dei rifiuti verde Amsa. Aveva visto Gemmi quasi tutti i giorni, negli ultimi anni, e gli stava anche simpatico, ma di lui sapeva così poco. Non sapeva se avesse una fidanzata, non sapeva di dove fosse originario. Vicedomini, invece, sapeva tutto del collega. Era fidanzato convivente in vista matrimonio con una gran figa bionda, con le orecchie a sventola però. Lei aveva avuto problemi di dipendenza da antidepressivi, robe così, ma da due anni era rinata, grazie a Giuliano. Cazzo, Gemmi aveva anche un nome, si chiamava Giuliano. Ed era del quartiere Isola, di via Volturno, per essere precisi. Abitava nello stesso palazzo dei suoi genitori, milanesi d’epoca. Aveva ventitré anni. Ed era appena morto su un marciapiedi assassinato da un sasso scagliato da uno spocchioso di merda incazzato perché un poliziotto stava, si, è vero, lo stava massacrando, quell’arabo del cazzo, ma Cristo quello aveva stirato una bambina!
Camporosso ascoltò in silenzio Vicedomini, fumando assorto le sue Pall Mall, mentre altri sbirri facevano tutti i rilievi, mentre in cuor suo sperava nessuno facesse quello che lui, per qualche istante, aveva desiderato fare.
Una settimana dopo, il funerale di Gemmi era passato, Vicedomini aveva un nuovo compagno, la sventolona di Gemmi tentava il suicidio coi barbiturici, e Camporosso sapeva chi avesse ucciso l’agente grazie alla videocamera di sorveglianza del benzinaio di viale Sarca. Ma Dio li fa, ed il Diavolo li accoppa.
Perché mentre Cristiano finalmente risolveva un caso con un serio metodo d’indagine, Vicedomini era riuscito a convincere un Commissario ad emanare un mandato di perquisizione per la Casa Matta, dalla quale proveniva in cuor suo l’assassino dell’amico e compagno. Così, mentre Cristiano chiedeva ad Aldo il toscano chi fosse il giovane rivoltoso con la barba ritratto in alcune foto pixellose ottenute dai fotogrammi della videosorveglianza –guardiana dei guardiani dei guardiani- del benzinaio là vicino, il Commissario Fassi caricò due camionette di sbirri antisommossa, tra cui Vicedomini, e partì al comando di un’incursione nei locali della Casa Matta.
Vicedomini stesso sfondò la porta a vetri, peraltro aperta, del Centro Sociale, e s’inoltrò nel piccolo corridoio che accedeva al cortile interno dello stabile ex-industriale seguito da Fassi e diciotto agenti in armatura. Fassi divise il drappello, dieci in cortile e dieci su per le scale che salivano a sinistra nelle stanze degli occupanti. Vicedomini prese le scale.
Crstiano entrò in Commissariato trionfante con il fromboliere in manette, Tiziano Cesari, uno studente di sociologia senza precedenti penali, un ragazzino di diciannove anni che al momento dell’arresto era scoppiato a piangere esclamando “Finalmente!”, e che per tutto il tragitto in macchina con Camporosso aveva spiegato la storia così come l’aveva vissuta lui, che non voleva mica ammazzarlo, ma così, nel gruppo, se non avesse lanciato quella pietra tutti gli avrebbero dato contro, che era un cagasotto e via dicendo. Cristiano aveva quasi avuto voglia di lasciarlo andare, ma poi si consolò convincendosi che se la sarebbe cavata con poco, il Cesari, che tanto la parola Giustizia in Italia si usa solo nella traduzione dei titoli dei thriller americani. Il trionfo fu svilito: Vicedomini era fuori. In missione.
Vicedomini era il compagno di Gemmi da tre anni. Avevano trascorso intere giornate assieme, fino a diventare intimi, più che amici, più che fratelli: ciascuno sapeva che dalla sua attenzione dipendeva la vita dell’altro, oltre che la propria, era un legame di sangue difficile da recidere in maniera diversa che col fallimento o la morte. Vicedomini frequentava Gemmi anche oltre l’orario di lavoro, combinavano uscite a quattro in cui la moglie del primo e la promessa sposa del secondo petulavano di facezie vanesie, mentre i due poliziotti sbraitavano contro i maxischermi che proiettavano il calcio a pagamento nel locale o nel ristorante. Vicedomini aveva promesso a Gemmi che gli avrebbe fatto tenere il figlio che gli stava per nascere a battesimo, e Gemmi invece aveva scelto il collega come testimone di nozze. Vicedomini non aveva potuto far niente per salvare il collega, il compagno, l’amico, il fratello, ed ora il cuore incrinato sotto la sua divisa reclamava una cosa soltanto: vendetta, a tutti i costi.
Mentre il plotone di esecuzione della Polizia di Stato manganellava a freddo chiunque trovasse all’interno della Casa Matta, Vicedomini sfondò una porta con un calcio e si trovò in una stanza occupata da un letto matrimoniale: sul letto stava inginocchiata una ragazza con in testa dei dredd tentacolari biondi, pallidissima, con in braccio un bambino di qualche mese, mentre un ragazzo barbuto stava tentando di spingere un armadio davanti all’entrata della stanza senza successo. Il ragazzo sbiancò e guardò Vicedomini. Lo sbirro ingoiò tutta la furia e si trovò ad essere confuso e spaventato, mentre urla e schiamazzi e tonfi di manganello popolavano l’aria: sollevò la visiera del casco, guardò il ragazzo, perplesso, e poi la ragazza, poi il bimbo, e poi il ragazzo.
“Che fate voi qui?”, chiese.
“Ci abitiamo…”
“Ma è vostra, la creatura?”
“Si”, rispose timoroso il ragazzo barbuto.
“Mannaggia…”, imprecò Vicedomini a bassa voce, lasciando cadere a terra il manganello. Poi levò il casco e chiese: “Ma voi sapete chi ha ammazzato il mio collega, qua davanti, settimana passata?”
“No”, rispose quasi in lacrime la ragazza coi dredd.
“Come si chiama?”, chiese il poliziotto.
“Chi?”
“La creatura…”
“Paco”
“Ma che nome e’mmerde, pore guaglione…”, sorrise Vicedomini, “Che posso prenderlo in braccio?”
I due ragazzi si guardarono perplessi, ma Vicedomini già stava sollevando tra le braccia il piccolo Paco: “Sapete, pure mia moglie è in attesa, deve nascere a dicembre. Ma lo chiamiamo Vincenzo, come mio padre. Ch’accussì le iniziali sono doppia V…”, e si mise a gigionare col poppante.
Entrò Fassi, e gridò: “Trovato qualcosa?”
“Ohè, dottò, non gridate, che spaventate la creatura. Qui non c’è niente, non troveremo niente. Può darsi che mi sono confuso…”, ammise Vicedomini. Riconsegnò Paco alla madre, e senza formalizzarsi col suo superiore, raccolse casco e manganello bisbigliando, “Mi sa che abbiamo combinato una cazzata, dottò, è meglio se ce ne andiamo…”
Fassi rimase con un palmo di naso, e sentì le vertigini immaginando soltanto i titoli dei giornali del giorno dopo. S’era fatto la Diaz a Genova, se l’era cavata, e s’era infilato di testa nella merda.
Vicedomini, invece, tornò in Cenisio.
Gemmi era morto. Ma non era in quel modo che l’avrebbe riportato in vita. Aveva combinato un inutile massacro, aveva messo nei guai il Commissario Fassi, e non aveva trovato neanche l’assassino del suo collega compagno amico e fratello, ed ora probabilmente si sarebbe scatenata una bufera sulla Polizia e lui sarebbe stato pure indagato. Ma mentre attraversava a piedi Niguarda per rientrare al Commissariato di Affori, sorrideva, e decise: Giuliano Vicedomini era uno splendido nome, un nome amico, un nome giusto, per suo figlio.
La gente guardava, allarmata, incuriosita, qualcuno pure divertito, và là lo sbirro che non ce la fa più. Ma crollò prima il marocchino: ad un certo punto, all’incirca all’altezza di Aldo, storica trattoria toscana lurida ed a prezzi popolari –particolare realizzato solo nell’immaginario di chi non ne era mai stato cliente- il magrebino s’inginocchiò a terra, spompato, e implorò.
Gemmi gli arrivò addosso come uno schiacciasassi, come una palla da demolizione che esagera nell’oscillazione e butta a terra anche i palazzi d’intorno. Ragazzi in pausa pranzo dall’Università Bicocca, che stavano pasteggiando chi da Aldo chi alla mensa della Casa Matta, centro sociale occupato studentesco, erano accorsi in strada attratti dal chiasso che l’evento stava suscitando, ed a quell’impatto dapprima risero di stupore. Gemmi stese a terra il marocchino con un calcio nei reni, poi cominciò a calciarlo sulle costole senza trattenersi, rubizzo d’ira in volto, sempre più forte.
Qualcuno gridò, picchialo piano, suscitando qualche risata e qualche commento d’approvazione o sdegno, ma Gemmi non sentiva niente, pensava solo a caricare ogni calcio più potente di quello precedente, a colpire in petto il nordafricano, mentre quello non riusciva più a respirare tra l’affanno e le percosse, e schiumava dalla bocca.
Vicedomini sopraggiunse ed arrestò la gazzella a pochi centimetri dal fuggitivo, scavalcando il marciapiede. Sulla volante con lui stava seduto mesto e tranquillo un altro marraca, in manette. Vicedomini sbalzò giù dall’auto e si mise a calciare pure lui lo sventurato staffettista marocchino.
L’adunanza civile cominciò ad insultare gli agenti in divisa, vermi, infami, ma quelli parevano sbattersene, pestavano senza far troppo caso alle condizioni del loro sacco di sfogo. Una Uno con sirena sul tettuccio accostò tranquilla al margine di viale Sarca, e ne scese l’ispettore Cristiano Camporosso. Guardò la scena, sorrise amaro e s’accese una Pall Mall blu. Un vecchietto gli si avvicinò chiedendo che avesse combinato il talebano, se fosse un terrorista, ma Cristiano rispose rassegnato: “Niente. Hanno rubato una macchina, lui ed il suo socio, ad Affori. Ed hanno stirato una bambina in Fulvio Testi. Il passeggero s’è consegnato subito, l’altro se l’è data a gambe. Cose che capitano, no?”, e s’avviò a quietare gli animi dei due agenti.
C’era un rombo caotico, quello provocato dalla troppa folla e precedente i disastri meteorologici o le catastrofi naturali. Cristiano ordinò ai due giovani sottoposti di mollare il marrakesh e caricarlo sulla volante, che il lavoro lo finivano i delinquenti onesti a San Vittore, non c’era bisogno di far indagare due agenti per percosse o abuso di potere. Ed appena il marocchino fu ammanettato e chiuso in macchina, arrivò la carica.
Al grido di fascisti, dei poveretti paladini di chissà che tipo di giustizia, come li avrebbe definiti poi Cristiano nel rapporto, assaltò i tre sbirri a calci e sassaiole. Gemmi rovinò quasi subito al suolo. Vicedomini mollò qualche cazzotto nella ressa, Cristiano cercò soltanto di farsi spazio intorno. Poi la schiera di guardiani dei guardiani arretrò disperdendosi. Qualcuno gridò: “È morto!”
E Vicedomini cominciò ad urlare. A piangere, ed urlare.
Gemmi era stato colpito ad una tempia con una pietra scagliata da qualcuno che per dogma politico odiava gli sbirri. Perché i delinquenti non odiano gli sbirri, ne hanno timore o li affrontano impavidi considerandoli merda, magari, o tentano in qualsiasi modo non onesto di farseli amici contagiandoli con la delinquenza ed il soldo facile. Ma alcune religioni partitiche ed extrapartitiche predicano l’odio allo sbirro, nemico del popolo, nemico della libertà. Alcuni politicanti non vogliono portare a processo le mafie, gli strozzini, gli assassini, le madri che massacrano i figli, o i pedofili, ma i poliziotti. Perché i delinquenti sono tutti vittima di un sistema sbagliato, mentre un ventenne che l’unico mestiere che abbia trovato giù in Ciociaria è stato venire ad indossare una divisa blu con un berretto da pirla in testa ed un cannone nella fondina a Milano è un fascista ed un infame. Perché al giornalista piace la rabbia di chi infiamma le strade, ma non piace il tutore dell’ordine che in preda al panico prema il grilletto. Perché lo sbirro ha più poteri e quindi più doveri di un cittadino normale, quindi stia in guardia, la guardia, i suoi guardiani stanno in agguato. E questo modo di pensare, anzi, di non pensare ma acquisire come proprio un ordine socio-politico interessato, Cristiano lo faceva imbestialire, perché faceva proprio il gioco ordito dai potenti, quel mettere l’uno contro l’altro i poveracci e distogliere l’attenzione dal giogo del controllo subliminale con sodomizzazione sociale inclusa. E nella sua testa stava prevedendo tutto con una oculatezza che l’avrebbe stupito, giorni dopo.
Era stato incredibile, pensò Camporosso mentre il cadavere di Gemmi veniva caricato sull’ambulanza a sirene spente, e Vicedomini prendeva a cazzotti un cestino dei rifiuti verde Amsa. Aveva visto Gemmi quasi tutti i giorni, negli ultimi anni, e gli stava anche simpatico, ma di lui sapeva così poco. Non sapeva se avesse una fidanzata, non sapeva di dove fosse originario. Vicedomini, invece, sapeva tutto del collega. Era fidanzato convivente in vista matrimonio con una gran figa bionda, con le orecchie a sventola però. Lei aveva avuto problemi di dipendenza da antidepressivi, robe così, ma da due anni era rinata, grazie a Giuliano. Cazzo, Gemmi aveva anche un nome, si chiamava Giuliano. Ed era del quartiere Isola, di via Volturno, per essere precisi. Abitava nello stesso palazzo dei suoi genitori, milanesi d’epoca. Aveva ventitré anni. Ed era appena morto su un marciapiedi assassinato da un sasso scagliato da uno spocchioso di merda incazzato perché un poliziotto stava, si, è vero, lo stava massacrando, quell’arabo del cazzo, ma Cristo quello aveva stirato una bambina!
Camporosso ascoltò in silenzio Vicedomini, fumando assorto le sue Pall Mall, mentre altri sbirri facevano tutti i rilievi, mentre in cuor suo sperava nessuno facesse quello che lui, per qualche istante, aveva desiderato fare.
Una settimana dopo, il funerale di Gemmi era passato, Vicedomini aveva un nuovo compagno, la sventolona di Gemmi tentava il suicidio coi barbiturici, e Camporosso sapeva chi avesse ucciso l’agente grazie alla videocamera di sorveglianza del benzinaio di viale Sarca. Ma Dio li fa, ed il Diavolo li accoppa.
Perché mentre Cristiano finalmente risolveva un caso con un serio metodo d’indagine, Vicedomini era riuscito a convincere un Commissario ad emanare un mandato di perquisizione per la Casa Matta, dalla quale proveniva in cuor suo l’assassino dell’amico e compagno. Così, mentre Cristiano chiedeva ad Aldo il toscano chi fosse il giovane rivoltoso con la barba ritratto in alcune foto pixellose ottenute dai fotogrammi della videosorveglianza –guardiana dei guardiani dei guardiani- del benzinaio là vicino, il Commissario Fassi caricò due camionette di sbirri antisommossa, tra cui Vicedomini, e partì al comando di un’incursione nei locali della Casa Matta.
Vicedomini stesso sfondò la porta a vetri, peraltro aperta, del Centro Sociale, e s’inoltrò nel piccolo corridoio che accedeva al cortile interno dello stabile ex-industriale seguito da Fassi e diciotto agenti in armatura. Fassi divise il drappello, dieci in cortile e dieci su per le scale che salivano a sinistra nelle stanze degli occupanti. Vicedomini prese le scale.
Crstiano entrò in Commissariato trionfante con il fromboliere in manette, Tiziano Cesari, uno studente di sociologia senza precedenti penali, un ragazzino di diciannove anni che al momento dell’arresto era scoppiato a piangere esclamando “Finalmente!”, e che per tutto il tragitto in macchina con Camporosso aveva spiegato la storia così come l’aveva vissuta lui, che non voleva mica ammazzarlo, ma così, nel gruppo, se non avesse lanciato quella pietra tutti gli avrebbero dato contro, che era un cagasotto e via dicendo. Cristiano aveva quasi avuto voglia di lasciarlo andare, ma poi si consolò convincendosi che se la sarebbe cavata con poco, il Cesari, che tanto la parola Giustizia in Italia si usa solo nella traduzione dei titoli dei thriller americani. Il trionfo fu svilito: Vicedomini era fuori. In missione.
Vicedomini era il compagno di Gemmi da tre anni. Avevano trascorso intere giornate assieme, fino a diventare intimi, più che amici, più che fratelli: ciascuno sapeva che dalla sua attenzione dipendeva la vita dell’altro, oltre che la propria, era un legame di sangue difficile da recidere in maniera diversa che col fallimento o la morte. Vicedomini frequentava Gemmi anche oltre l’orario di lavoro, combinavano uscite a quattro in cui la moglie del primo e la promessa sposa del secondo petulavano di facezie vanesie, mentre i due poliziotti sbraitavano contro i maxischermi che proiettavano il calcio a pagamento nel locale o nel ristorante. Vicedomini aveva promesso a Gemmi che gli avrebbe fatto tenere il figlio che gli stava per nascere a battesimo, e Gemmi invece aveva scelto il collega come testimone di nozze. Vicedomini non aveva potuto far niente per salvare il collega, il compagno, l’amico, il fratello, ed ora il cuore incrinato sotto la sua divisa reclamava una cosa soltanto: vendetta, a tutti i costi.
Mentre il plotone di esecuzione della Polizia di Stato manganellava a freddo chiunque trovasse all’interno della Casa Matta, Vicedomini sfondò una porta con un calcio e si trovò in una stanza occupata da un letto matrimoniale: sul letto stava inginocchiata una ragazza con in testa dei dredd tentacolari biondi, pallidissima, con in braccio un bambino di qualche mese, mentre un ragazzo barbuto stava tentando di spingere un armadio davanti all’entrata della stanza senza successo. Il ragazzo sbiancò e guardò Vicedomini. Lo sbirro ingoiò tutta la furia e si trovò ad essere confuso e spaventato, mentre urla e schiamazzi e tonfi di manganello popolavano l’aria: sollevò la visiera del casco, guardò il ragazzo, perplesso, e poi la ragazza, poi il bimbo, e poi il ragazzo.
“Che fate voi qui?”, chiese.
“Ci abitiamo…”
“Ma è vostra, la creatura?”
“Si”, rispose timoroso il ragazzo barbuto.
“Mannaggia…”, imprecò Vicedomini a bassa voce, lasciando cadere a terra il manganello. Poi levò il casco e chiese: “Ma voi sapete chi ha ammazzato il mio collega, qua davanti, settimana passata?”
“No”, rispose quasi in lacrime la ragazza coi dredd.
“Come si chiama?”, chiese il poliziotto.
“Chi?”
“La creatura…”
“Paco”
“Ma che nome e’mmerde, pore guaglione…”, sorrise Vicedomini, “Che posso prenderlo in braccio?”
I due ragazzi si guardarono perplessi, ma Vicedomini già stava sollevando tra le braccia il piccolo Paco: “Sapete, pure mia moglie è in attesa, deve nascere a dicembre. Ma lo chiamiamo Vincenzo, come mio padre. Ch’accussì le iniziali sono doppia V…”, e si mise a gigionare col poppante.
Entrò Fassi, e gridò: “Trovato qualcosa?”
“Ohè, dottò, non gridate, che spaventate la creatura. Qui non c’è niente, non troveremo niente. Può darsi che mi sono confuso…”, ammise Vicedomini. Riconsegnò Paco alla madre, e senza formalizzarsi col suo superiore, raccolse casco e manganello bisbigliando, “Mi sa che abbiamo combinato una cazzata, dottò, è meglio se ce ne andiamo…”
Fassi rimase con un palmo di naso, e sentì le vertigini immaginando soltanto i titoli dei giornali del giorno dopo. S’era fatto la Diaz a Genova, se l’era cavata, e s’era infilato di testa nella merda.
Vicedomini, invece, tornò in Cenisio.
Gemmi era morto. Ma non era in quel modo che l’avrebbe riportato in vita. Aveva combinato un inutile massacro, aveva messo nei guai il Commissario Fassi, e non aveva trovato neanche l’assassino del suo collega compagno amico e fratello, ed ora probabilmente si sarebbe scatenata una bufera sulla Polizia e lui sarebbe stato pure indagato. Ma mentre attraversava a piedi Niguarda per rientrare al Commissariato di Affori, sorrideva, e decise: Giuliano Vicedomini era uno splendido nome, un nome amico, un nome giusto, per suo figlio.