Wednesday, November 29, 2006

Grazie a Dio

Il racconto prototipo rivisto e completato! Leggete e commentate!
“Buona sera dottor Camporosso”, esordì l’appuntato Gemmi mentre apriva la porta dell’appartamento di via Tracia al suo superiore.
“Gemmi, non sono laureato, non sono nessuno, sono qui per raccomandazione solo a prendere la michetta, quindi chiamami Cristiano e facciamola finita…”. Camporosso, ispettore della Polizia Criminale, per caso e per forza, trent’anni in ottanta chili di muscoli rilassati, avvolto per il lungo in uno spolverino blu che pareva raccolto per la strada, era bonario, schietto, ed ancor più sarcastico. Aveva studiato poco e male, s’era costruito una cultura strana tra romanzi all’italiana e film di Castellari, spolverata di fumetti ed altra non-cultura, e dopo dieci anni di squat e centri sociali presi sempre senza impegno, aveva partecipato al concorso per entrare in Polizia come fosse stato quello del Dixan, solo per i soldi e senza vere intenzioni: sta di fatto che il padre della sua fidanzata era poliziotto, e trovandolo tra i nominativi dei risultati non eccelsi, l’aveva spostato tra i primi dieci privilegiati. Gli amici l’avevano preso per il culo fino all’isterismo, quando l’avevano visto in divisa. Ma dopo il primo stipendio, Cristiano non ci fece più caso.
Ora Cristiano Camporosso era ispettore, perché non era comunque uomo senza qualità, e la divisa poteva smetterla se non nelle occasioni formali, e per il suo carattere s’era guadagnato l’occhio buono dei subordinati, e quello storto dei superiori. Per questo Gemmi rispose: “Dottor Camporosso, lo sa, è più forte di me…”
“Allora non chiamarmi, e dimmi solo che è successo qui.”
“Un macello. Il padre ha preso a fucilate i due figli, dieci e cinque anni, e poi s’è sparato in faccia. Nessun sopravvissuto. I cadaveri sono ancora di là, dove li ha trovati la vicina. Vicedomini è andato ad informare l’ex moglie dell’assassino.”
“Posso vedere i corpi?”
“Certo… si tenga forte, è roba da brivido…”

Camporosso entrò nella camera adiacente all’ingresso in silenzio, ed in silenzio si mise a studiare la scena, immobile sulla soglia. Vedeva un uomo, seduto con le spalle alla finestra con la faccia ridotta a poche frattaglie; un bambino di circa dieci anni col petto dilaniato ed una pistola dello spazio intergalattico di plastica in mano, riverso supino un paio di metri di fronte all’uomo; quindi scorse la piccolissima mano vicina al suo piede destro, un altro bimbo, molto più piccolo del primo, sdraiato prono con un braccino portato in avanti, in direzione della porta, la schiena spaccata da quelli che parevano due colpi di piccone, ed invece erano solo due proiettili sparati da un padre disperato. E disgraziato. Si, perché, pensò Camporosso, solo un padre disperato può arrivare a mangiarsi i suoi cuccioli. E comunque, decise, il suo stomaco avrebbe digiunato anche quel giorno.

“Sigaretta”, chiese. Gemmi rispose porgendogli un pacchetto intero. Cristiano lo aprì, ne estrasse una, la portò alla bocca e l’accese, sbuffò una abbondante boccata di fumo, restituì il pacchetto a Gemmi, e cominciò: “Qual è la prima versione dei fatti?”
“Abbiamo già interrogato la vicina, la signora…”, Gemmi sfogliò un blocco note piccolissimo che teneva nella mano guantata, “… Marchesi.”
“E che dice, questa signora Marchesi?”
“Allora… alle ore 17 circa avrebbe sentito i bambini correre giù per le scale ed entrare in casa del padre.”
“Ce l’hanno un nome, questi bambini?”
“Sharon, la bimba di dieci, Dylan, il bimbo di cinque.”
“Che nomi del cazzo… ma i genitori erano stranieri?”
“Nessuno dei due. La madre si chiama Carmela Zappulla, il padre si chiamava Duilio Zammataro, direi che stanno più a sud di lei, dottore, ma comunque in Italia…”
Camporosso sorrise, chinandosi sul corpicino del piccolo Dylan Zammataro: “E quindi?”
“Appena entrati, ha sentito tre spari, poi un quarto: è corsa a vedere, la porta dell’appartamento sul pianerottolo era aperta. Quando è entrata ha trovato i corpi così come li vede ora lei.”
“Impressioni?”
“Io la penso così, dottore: il padre era divorziato, e la madre abitava due piani qui sopra. Era geloso ed ha sparato ai figli per fare uno sfregio all’ex-moglie.”
“Plausibile. Dov’è Markic?”
“Il dottor Markic dovrebbe arrivare ora assieme al fotografo.”
“Bene. Ci metterà un po’, c’è un sacco di traffico. Quando arriva, chiamami. Io vado di sopra dalla madre dei bimbi… c’è Vicedomini, no?”
“Già. È salito più di mezz’ora fa…”
“A dopo…”

Camporosso salì i due piani a piedi: sul pianerottolo aveva incontrato la disponibilità eccessiva della signora Marchesi, che a quanto pareva voleva farsi interrogare di nuovo da lui. Lui, cortesemente, la tranqullizzò elogiandone la chiarezza espositiva della dichiarazione. Due piani più sopra, Vicedomini fumava una sigaretta davanti alla porta della ex-signora Zappulla.
“Vicedomini, non riuscirai mai a far l’uccello del malaugurio, eh?”
“Oh, buon giorno dottò… io stavo solo… cioè, facendomi coraggio, non so… non so come dirglielo…”
“Fammi, un favore, Vicedomini: c’è una signora, giù, la signora Marchesi, vai da lei, fatti offrire un caffè, e cerca di evitare che diffonda la notizia. A far la cornacchia ci penso io.”

“I suoi bimbi sono morti. Il suo ex marito li ha presi a fucilate, poi s’è sparato.”
“Come, scusi?”
“Ho detto, Camporosso, Polizia Criminale: i suoi bimbi sono morti, il suo ex li ha fucilati e s’è sparato pure lui.”
“Come?””Ho detto, Camporosso, Polizia, i suoi bimbi sono morti a fucilate…”
“Ho capito, ho capito!”
Camporosso sentiva l’odore delle persone. E quando la signora Carmen Zappulla gli aveva aperto la porta di casa, il fiuto gli aveva imposto di essere crudo.
“Prego, entri…”
Carmen Zappulla era una signora oltre i quaranta anche ben tenuta, fresca di tinta nero corvino, pantajazz neri aderenti ed un top di pelo acrilico fucsia con sopra una enorme croce nera a pendaglio dal collo: una attempata adolescente con degli osceni stivali di pitone bianchi col tacco.
“Grazie.”
“Posso offrirle qualcosa?”
“No, grazie, sa, i cadaveri dei bambini ti bloccano lo stomaco…”
“Ah…”
L’atmosfera effettivamente s’era fatta surreale: in un decadente condominio popolare, in un monolocale scalcinato un padre aveva ammazzato i propri figli; due piani più sopra la madre dei bambini, una versione degradata, volgare ed involontaria di Cindy Lauper, in un’enorme appartamento arredato sicuramente da un navigato progettista d’interni, dalle pareti sobrie ed i mobili smussati agli angoli e varia oggettistica di design in esposizione, accoglieva un poliziotto privo del filtro del tatto che le spiegava come erano morti i suoi bambini.
“E quando è successo?”
Camporosso guardò delle lancette nere che spuntavano direttamente dal muro, segnavano le 18 e 15: “Circa un’ora e un quarto fa.”
“E dove sono?”
“A casa di suo marito”, Cristiano estrasse una sigaretta spiegazzata dalla tasca interna dello spolverino.
“Ah…”
“Dov’era lei un’ora e un quarto fa?”, chiese Camporosso, poi accese la sigaretta.
“Ero qui, in casa…”, la Zappulla gli porse un posacenere.
“Qualcuno può confermarlo?”
“Il mio compagno, l’architetto Santi…”
“Ed i bambini?”
“I bambini hanno ricevuto una telefonata dal padre, gli ha chiesto di scendere… mi hanno chiesto il permesso ed io ho detto che andavano pure…”
“Senza permesso non sarebbero morti. Vuol vederli?”
“Certo!”, rispose Carmen Zappulla, d’un tratto sbalenando fuori dal suo stato di ebetismo intellettuale.
“Andiamo.”

Mentre Camporosso e Carmen Zappulla scendevano le scale, Markic, il dottore della scientifica, ed il fotografo salivano. I quattro si incontrarono davanti la porta di Duilio Zammataro, un povero cristo bastardo che aveva ucciso i figli per far dispetto alla moglie che puttaneggiava con un architetto. Si salutarono, poi entrarono nel monolocale, mentre dietro la porta di fronte la signora Marchesi raccontava a Vicedomini della nuora, Cristina, che aveva sposato anche lei uno di polizia, ma di giù, la trattava come a regina, lei stava a casa, ma da brava ragazza madre di famiglia, non come quella prustituta della moglie di Duilio, che s’era cercata i soldi e credeva di essere tornata bambina lei, e i figli in strada, Cristina no, stirava, lavava, cucinava, tutto benissimo, e Vicedomini pensò che la prossima volta avrebbe fatto l’uccello del malaugurio, piuttosto che andare a prendere caffè e mal di testa da un’altra signora Deodata Marchesi.



“Chissà dove vanno i bambini morti ammazzati…”, chiese all’aria sospirando Cristiano, stupendosi di quella sua sciocca ed insensata domanda, mentre la Morte, lì convenuta per adempiere al suo triste e necessario dovere, anche la Morte che se ne stava là invisibile e distratta a fumare tra i cadaveri, ebbe un brivido lungo lo scheletro.
“Gemmi, per favore, un’altra sigaretta…”
“Prego, dottor Camporosso!”
Cristiano accese la sigaretta, poi chiese a Markic: “Allora?”
“Che cazzo m’avete chiamato a fare, si vede ad occhio nudo, quello senza faccia ha sparato ai due bambini, li ha fatti fuori sul colpo e poi s’è fucilato. Ora del decesso, un’ora e mezza fa. Porca puttana, un’ora in macchina per un lavoro di venti secondi!”
“Sei pagato anche tu per questo. Faccio entrare la madre…”
Cristiano spinse la porta della stanza e chiamò la ex signora Zammataro: quella scattò dentro, ed anzi, ancor prima di essere entrata nel locale, cominciò a strillare, fortissimo, sfrenatamente, agitando la testa e strappandosi la chioma tinta con le mani. Gemmi e Markic la raccolsero da terra, inginocchiata, e la riaccompagnarono sul pianerottolo, poi su fino in casa. Cercarono di calmarla, ma le sue grida attirarono comunque l’attenzione di tutto il palazzo. Decine di persone affluirono sulle scale. Cristiano buttò il mozzicone in terra, lo calpestò, e bussò a casa Marchesi. Disse a Vicedomini di far pure portare via i cadaveri, e poi raggiungerlo in macchina. Aveva parcheggiato proprio di fronte al cancello di quel palazzo di via Tracia.

Cristiano aveva una Fiat Uno d’antiquariato, nel senso che ormai la carrozzeria era metallo fossile. La usava come ufficio mobile quando si muoveva, e comunque, di solito, amava trascorrere la domenica in casa, ed il resto della settimana chiuso nella macchina parcheggiata da qualche parte. Ora stava lì, seduto al posto di guida, dopo aver comprato le sigarette sottobanco al bar di via Paravia insieme ad un caffè, e fumava meditando, coi finestrini chiusi, mentre a Milano pioveva una sera di gennaio. Faceva un freddo cane.

Duilio Zammataro aveva ucciso i figli a fucilate. Carmen Zappulla aveva accolto la Polizia allo stesso modo in cui i liberi professionisti accolgono la Guardia di Finanza. Con diffidenza, fino a nascondere il dolore; se anche ce n’era. Non c’erano dubbi su chi fosse l’assassino: ma Cristiano aveva dei dubbi su chi fossero le vittime, e sul motivo di tale macello. E prima di archiviare il caso, voleva delineare al meglio la forma di questi dubbi.

Vicedomini scese in strada appena prima che arrivasse l’ambulanza con le sirene a morto. Ascoltò qualcosa da Cristiano, quindi l’ispettore avviò il motore e partì, mentre il giovane poliziotto lo salutava accondiscendendo a qualche richiesta. E quando le due ambulanze portarono via i tre cadaveri, uno per ogni misura, in strada rimase una pantera, con dentro due giovani poliziotti, Vicedomini e Gemmi, a mangiare un McBacon ed un McFish, bevendo Coca Cola sgasata sotto la fredda pioggia di micropolveri ed acqua gelida di Milano.

Cristiano Camporosso tornava in ufficio dopo un pomeriggio movimentato, con in una mano un pacchetto di Diana Blu, nell’altra un sacchetto di plastica da cui veniva odore di falafel e kebab e spuntavano una bottiglia di Mecca Cola con, nascosta in un tovagliolo, una Moretti da 66. Era stanco, nauseato, ed affamato. Salutò alcuni colleghi, e si infilò nel suo stanzino, a cenare con la scusa di redigere il rapporto del delitto di via Tracia. Il kebab con le patate fritte sopravvisse ancora un paio di minuti, poi fu la volta del panino di falafel, quindi accese una sigaretta e stappò la birra Moretti con l’accendino. Accese il computer. Cliccò due volte sull’icona di Double Dragon II, e si mise a giochicchiare, con la sigaretta in bocca ed il fumo negli occhi. Pensava.

Furono Vicedomini e Gemmi a distoglierlo dal punk vestito di rosso. Camporosso pigiò immediatamente il tasto ESC lasciando sul monitor la schermata di Word. Accese una sigaretta, diede un sorso di birra, si alzò in piedi e chiese ai due poliziotti sull’attenti, bagnati: “Allora?”
“Allora solo freddo, dottore…”, rispose Gemmi, prendendo la sigaretta che gli porgeva Cristiano.

“Dunque l’architetto, uscito secondo le testimonianze del portiere del palazzo circa cinque minuti prima che arrivasse la Polizia, non è tornato a casa, perlomeno per cena. Ma se avessero ammazzato i figli di tua moglie, Vicedomini, tu ti tratterresti al lavoro?”
“Non credo proprio”, rispose accendendo la sigaretta offertagli dal suo giovane superiore.
“Appunto. Avete scoperto intanto dove sia lo studio di questo Santi?”
“Qualcuno ha detto in Bovisa, forse è professore…”, rispose Gemmi, che da quando aveva acceso la sigaretta aveva perso la marzialità dell’attenti.
“Benissimo, domattina andiamo a trovarlo, Vicedomini, raccogli informazioni. Io nutro una convinzione, più che altro un dubbio che è una convinzione: Zammataro è un assassino, spietato, ma folle e disperato. Sono convinto che qualcosa o qualcuno l’ha portato all’estrema decisione di ammazzare i figli. Ora, se io fossi disperato, non verrei a lavorare, come ha fatto Zammataro. Starei chiuso in casa a tracannare Jack Daniel’s, a fumare MS, forse andrei anche a puttane, ma cercherei di problematicizzare ulteriormente la mia esistenza, per distruggermi e farmi schifo. Quando ti fai schifo, e solo allora, puoi ucciderti. A meno che tu non lo faccia per fuggire. L’omicidio si compie per rabbia, calda o fredda; il suicidio per disperato odio verso sé stessi, o per paura del futuro… sedetevi pure, ragazzi… insomma. Semplicemente, io so chi ha ammazzato i bambini, e probabilmente so anche perché. Ma così, a pelle, è tutta questione di pelle, come direbbe Lino Banfi, la Zappulla mi sta sulle palle e sento, così, intuito, che non me la racconta giusta. So che probabilmente perderemo tempo e basta, ma per le prossime 72 ore voglio concentrarmi su quella troia sfatta, sul compagno laureato, e capire perché uno spazzino di 42 anni con la passione della caccia, unico sfogo alle tensioni familiari, prende e ammazza i figli. Ecco tutto.” Prese la Moretti e sorseggiò, dunque accese un’altra sigaretta, e si risedette dietro la scrivania. “Domani, io ed un amico andiamo a parlare con l’architetto. Tu, Gemmi, insieme a Vicedomini, ti fai di nuovo un giretto in via Tracia, in borghese, vai al bar di via Paravia, a quello di piazza Selinunte, ascolti, prendila come una vacanza, ma senti che dice la gente. San Siro è come un paesello, anche se ormai è terra magrebina. Vedrai che qualche notizia interessante viene fuori…”

Gemmi e Vicedomini conoscevano la sporadica logorrea di Cristiano, per questo si erano seduti ancor prima del suo invito. Nonostante questo, ascoltarono le istruzioni con attenzione. Si fidavano ciecamente del dottor Camporosso. Come Camporosso si fidava di Lo Russo Felice, un mastino pugliese alto un metro e sessanta, per 103 chilogrammi di potenza macinatoria nelle braccia e nelle mani.

“Buongiorno, lei è il dottor Santi?”
“Chi desidera saperlo?”
“Camporosso, Polizia. Potremmo farle qualche domanda?”
“Ma anche lui è poliziotto?”
“Certo, perché?”
“Perché già lei è poco credibile, si figuri questo tipo qui…”
Al Pugile prudevano già le mani. Avevano aspettato circa un’ora l’architetto in strada sotto il suo studio, ed a gennaio è una pessima esperienza. La Bovisa stava diventando una piccola Islamabad, le strade erano sempre più lerce, e devastate, cantieri stavano abbattendo ogni vecchia testimonianza dell’antica dignità industriale della zona. Dove stava il saponificio c’erano stati prima gli zingari, i rumeni, gli albanotti, poi la giunta era stanca delle lamentele e aveva deciso di sfondare i soffitti e lasciarli senza un tetto. Ma i parassiti trovano ovunque dove attecchire, sicché s’era risolto tutto in una inutile cattiveria, che non aveva né ripulito la città né salvati gli indigenti. Fosse stato per il Pugile al posto dei bulldozer avrebbe usato il lanciafiamme, stava di fatto che Milano tossiva sempre più malata di tifo e feccia. E quel giorno faceva pure un freddo del cazzo, aggiunse.
Come se non fosse bastato, s’era aggiunto quel viscido architettucolo con la puzza sotto il naso e la saccenza da dittatore nordcoreano. Li fece salire nel suo lussuoso studio, li fece accomodare come fossero stati clochard alla mensa dei poveretti, offrì loro un caffè in tondeggianti tazzone design e si mise a giocare a biliardo, nello studio teneva un biliardo, a casa di Camporosso il soggiorno era più piccolo del panno verde. Lo aiutava a rilassarsi, disse.
Cristiano lo osservò: non tradiva alcun tipo di preoccupazione, sostenendo un’aria di superiorità che metteva a disagio, con i suoi vestiti da architetto, il solito dolcevita coi soliti calzoni alla carrettiera, nero e marrone, gli architetti si vestono sempre a metà tra un carpentiere omosessuale ed uno stilista a cui hanno scippato il buon gusto dieci minuti prima.
“Sa dirmi dov’era ieri sera mentre i piccoli Dylan e Sharon venivano fucilati?”, chiese Cristiano.
“Ero in casa con mia moglie. A quanto ho capito sono uscito poco prima che accadesse tutto…”, rispose tranquillo Santi infilando la prima palla in buca.
“Beh, ad essere sinceri a noi è stato detto che lei sarebbe uscito poco prima dell’arrivo della Polizia…”
“Forse siete stati celeri, per una volta”, ridacchiò l’architetto puntando gli occhi in quelli dell’ispettore, “Sarete stati tanto tempestivi che sul piano della percezione prima dell’accaduto e prima del vostro intervento hanno coinciso, dottor…?”
“Camporosso, ma senza titolo, semplicemente ispettore”, Cristiano si morse la lingua, e sentendo la biglia decisa centrare la buca e finire in deposito, comprese di essere caduto nella trappola. Era furbo, l’architetto.
“Ah, non è laureato?”
“No, non è necessario per essere ispettori”, bravo babbo, si insultò Camporosso. Vedeva la tela intessuta da Sarti e ci si invischiava sempre più.
“Ma ha studiato, però, parla correttamente l’italiano… sa, io ho una certa passione per la lingua e la letteratura”, terza palla in buca.
“Io no, ho solo una certa familiarità con gli stronzi…”, bravo Cristiano, disse il tenente Colombo, grosso come un puffo, appollaiato sulla sua spalla destra, sei cascato nel tranello elementare dell’esperto di una scienza il cui massimo esponente si chiama renzo piano, tutto questo denota l’astuzia del detective.
“Cosa vorrebbe insinuare?”
“Come? Niente, niente. Senta, non ho molto tempo…”
“Ed io ne ho meno di lei, ispettore”, lo interruppe Sarti rimarcando il grado di Cristiano.
“Appunto. Com’erano i rapporti con lo Zammataro?”
“Era un poveretto, incolto, uomo ignorante e di fatica come una bestia da soma. Un disgraziato. Non aveva niente da dire e niente da dare. Spesso sono i gradini inferiori dell’evoluzione a macchiarsi delle più turpi crudeltà, una legge di natura”
“La natura può essere crudele, cruda, cinica, ma è sempre logica. Zammataro ha compiuto un gesto illogico. Ci hanno detto che amava i suoi figli, che li riempiva di regali”
“Certo, ma era geloso che Carmen si fosse ricostruita una vita, era in continua competizione con me, per questo dilapidava tutto lo stipendio in quelle sciocche cianfrusaglie da poche lire che comprava per i figli. Ciarpame acquistato al mercato, mentre io potevo dare loro tutto ciò che desiderassero. Lui non lo capiva, voleva indietro la sua famiglia, senza capire che averla persa era soltanto colpa sua, della sua inettitudine, della sua mediocrità”
“Ha una gran considerazione del povero Duilio, vedo”, disse Cristiano alzandosi in piedi, “Ma ne parla con scherno, con biasimo, senza rancore, senza l’odio che dovrebbe provare per chi ha ucciso i suoi figliocci. Lei è freddo, distaccato, tradisce quasi soddisfazione”
“Ma come si permette?”, s’indignò Santi.
Cristiano accese una sigaretta, una Diana Blu, e fece cenno al Pugile di venir via: “La ringrazio, dottor Santi…”

Il Pugile soffiò vapore furioso dal naso taurino: “Sai che penso, Campo? Penso che sia stato questo figlio di puttana a sparare ai bambini e pure al padre!”
“No, ti sbagli. È troppo intelligente per una cosa del genere. Come i veri figli di puttana deve essere stato sottile. Molto sottile. Però è colpa sua.”
“Hai qualche piano? Per incastrarlo?”
“E per chi cazzo m’hai preso, per il tenente Colombo? Questo ci ha fottuti tutti: la passerà liscia, se non ci sono testimoni, e comunque al massimo la passa liscia poi in tribunale. Il mondo e la burocrazia giudiziaria stanno coi figli di puttana…”
“Vaffanculo”, sbuffò col naso il Pugile, come i buoi che avevano dato il nome alla zona, Bovisa da boves, che non era latino ma milanese, e Felice Lo Russo non capiva niente del primo e meno del secondo, al massimo in Bovisa cercava le vacche, quelle umane, ma a suo avviso era solo una zona affollata da porci arabi e spocchiosi universitari del cazzo, con le loro troie a panza di fuori e la riga del culo in bella mostra, che bella umanità di merda, ed il suo amico pulotto lo tirava su ammettendo la realtà, che nessuno paga mai, che gli stronzi cadono sempre sul culo, che puoi ammazzare un bambino e filarla liscia e nessuno ti potrà mai dire niente, mica come ai tempi di Toni Ganassa, quando i pedofili in carcere li prendevano a sgabellate sulla testa e sulla schiena, senza preoccuparsi di non ammazzarli, anzi. “Oh, mi hai fatto girare le palle, andiamo a scroccare da bere al Gatto, già che siam qui, non dire di no”

Dalla Bovisa a casa del Gatto in Affori a piedi ci volevano cinque minuti, in macchina un quarto d’ora di sensi unici, semafori e carrozze di latta incolonnate. Il Gatto se ne stava a casa a curar la bronchite, causata dal freddo, secondo lui, provocata dalle troppe sigarette a detta dei suoi polmoni. Accolse i suoi amici interdetto, a petto nudo svelando la sua impressionante magrezza ricucita da centinaia di punti di sutura, la maggior parte dei quali monito alla sua ed altrui sciocchezza. L’appartamento della casa di ringhiera era un disastro: all’esterno fatiscente, all’interno dominato da un disordine dissennato, libri e fumetti ovunque, una pila di compact disc instabile e più alta del tavolo. Il soggiorno era arredato da una libreria strabordante, una cristalliera colma di robacce, il tavolo da pranzo, un divano, due poltrone; una finestra a balconcino senza persiane illuminava la stanza anche di notte tramite un lampione appeso a pochi metri dall’apertura. Tale arredamento si sarebbe potuto scorgere se non fosse scomparso sotto le tonnellate di alimenti per la fantasia che il Gatto possedeva e lasciava in giro. L’unico spiazzo libero sul pavimento era coperto da un tappeto con sopra accartocciata una coperta di lana ed una chitarra senza corde.

“E c’hai la bronchite e te ne vai in giro a petto nudo?”, lo rimproverò il Pugile sfilando il cappello di lana dalla testa, “E poi c’è un nebbione di fumo di sigaretta, grazie al cazzo che non guarisci se continui a fumare, babbo!”
Il Gatto rispose imbarazzato: “No, ma adesso sto bene, sono in convalescenza ma sono guarito…”

Sedettero dove poterono ed il Gatto stappò tre birre Moretti, dopo essersi infilato una maglietta nera con sopra disegnato un braccio mozzato che spruzzava sangue stringendo ancora salda l’elsa di una spada. Camporosso raccontò la storia brutta di Zammataro e dei bambini, interrotto metodicamente dagli imprechi del Pugile. Il Gatto ascoltò distratto, poi più per riflesso condizionato che per aver capito davvero qualcosa chiese: “E tu come la vedi, Campo?”
“Io”, disse Camporosso, “Sono convinto che l’architetto e l’ex moglie abbiano indotto Zammataro a compiere la strage, magari sottoponendolo a qualche forma di tortura psicologica…”
“E come pensi di provarlo?”, temporeggiò il Gatto.
“Non posso provarlo. Non posso né accusarli né arrestarli. L’unica prova che ho, che poi una prova non è, è chè dai tabulati della Telecom risulta una chiamata della Zappulla allo Zammataro intorno all’ora della strage… ma non ho niente di concreto in mano. Me la vedo già la troia che telefona all’ex marito mentre se lo fa piazzare in culo dall’architetto ansimando, umiliandolo, spingendolo a cercar vendetta sparando ai figli. E quel povero cristo coglione prende la carabina e spara ai figli e poi s’ammazza. E vaffanculo…”
“Fantapornografia”, commentò il Gatto dubbioso ma credendoci un poco. Poi sbiancò.
Una voce di donna, all’improvviso.
“I bambini non si toccano”, rabbiosa, solenne. Lulù, con gli occhi lucidi ed i denti stretti comparve dall’ingresso in soggiorno, il caschetto nero di capelli bagnati tirato all’indietro, addosso solo l’accappatoio di Capitan America. Si voltarono tutti e tre a guardarla, quella bambina che in realtà era una donna, non alta ma attraente, infantile, d’una bellezza che forse non poteva essere oggettiva ma indubbiamente era la più adatta possibile, la più complementare, alla personalità del Gatto.
Solo a quell’epifania Camporosso scorse sul tappeto, accartocciati con la coperta, uno slippino fucsia, una gonnellina scozzese, delle calze di nylon ed un reggiseno anch’esso fucsia non generoso ma ammiccante.
Lulù ebbe un brivido, mentre il Gatto arrossiva ed il Pugile veniva fatto preda da un mutismo assoluto dovuto al colpo di tosse di Cristiano che gli aveva fatto notare l’intimo sul tappeto. La bimba ferita chiese, perdendo una lacrima, “Che pensi di fare, Cristiano?”
“Io non penso di far niente. Ci pensi Dio…”
Dio, che aveva trascorso l’ultima mezz’ora nascosto in bagno a sbirciare le abluzioni sensuali di Lulù, sentendosi nominare si vergognò come a loro tempo avevano fatto Adamo ed Eva, e senza rifletterci troppo sopra esclamò, “Ci penso io”, e scomparve, lasciando intendere che quella voce fosse stato lo sciacquone azionatosi per vita propria.

Lulù si vestì con degli abiti del Gatto, senza reggiseno e con dei boxer da uomo, per evitar di recuperare il suo intimo sul tappeto in presenza di Cristiano e del Pugile. Con la mimetica e la felpa nera –gli indumenti più sobri che avesse reperito tra gli stracci del felino- sembrava un tredicenne androgino più che una ragazza. Salutò sommessamente ed uscì trafelata, per andare a scuola, disse.
La curiosità, si sa, è femmina, e così il Pugile giustificò la sua domanda rivolta al Gatto: “A scuola? Ma quanti anni c’ha?”
“Ventidue. Tutte le mie ragazze hanno meno di ventidue anni. A ventidue di solito mi lasciano, dura lex sed lex…”, rispose amaro il Gatto.
“Appunto, non vi siete lasciati mesi fa?”, intervenne Camporosso.
“Si”
“Vi siete rimessi insieme?”
“No”
“E allora che cazzo ci faceva qui, Lulù?”
“Passava…”
“E si faceva una doccia di passaggio?”
“A casa sua hanno la caldaia rotta…”, si poteva sentire lo stridore delle unghie del Gatto appigliate con tutta la loro forza a tutti i vetri del suo reame.
“E si doveva spogliare in soggiorno, per fare la doccia?”, insistette Cristiano sollevando gli slippini fucsia filatelici rinvenuti sul tappeto.
“E fatti un po’ i cazzi tuoi, Campo”, troncò il Gatto, alzandosi ad occhi bassi e tutto rosso per recuperare un altro giro di Moretti.

Vicedomini si fiondò nell’ufficio dell’ispettore Cristiano Camporosso, un paio d’ore dopo, svegliandolo dal suo torpore alcolico: “Mi scusi, dottò!”
Cristiano cerco di capire dove fosse ora che aveva ripreso coscienza, “Non c’è problema, Vicedomini, che c’è?”
“Una voce che abbiamo sentito al bar, io e Gemmi, oggi.”
“Che voce?”
“Per i bambini ammazzati, dottò… l’architetto, lì, il nuovo marito della madre… fessava di continuo il padre…”
“Fessava? Che vuol dire fessava, Vicedomini?”
“Che lo torturava, tipo… lo umiliava… non lo so, me l’ha detto Gemmi…”
“Vessava. Deve aver detto vessava. Comunque, continua, Vicedomini”, spronò Camporosso, chiedendosi che diavolo di cognome fosse quello.
“E comunque l’architetto, lì, diceva sempre a quell’altro che se teneva le palle doveva portare via i bambini, ma no portarli via che poi se li andava a riprendere, proprio ammazzarle, le creature, doveva spararle, che così faceva capire alla moglie che era un uomo…”
“Capisco”, Cristiano era compiaciuto delle sue intuizioni e disgustato dall’aver avuto ragione, mentre un rutto acido di baffi Moretti gli tornava sotto al naso, “Scusa… e qualcuno ha testimoniato?”
“Nessuno è disposto a farlo, perché so’ solo chiacchiere, e le chiacchiere fann’e’ppiruocchie, dottò… e poi lo sapete, sono case popolari, arabi e meridionali, lì lo sbirro non lo vuol fare nessuno, è pieno di omerdosi, come si dice…”
“No, no, è giusto, merdosi. Merdosi omertosi…”
“E allora, che putimme fa, dottò?”
“Tu puoi darti una calmata, e smettere di parlare in dialetto”, che Vicedomini aveva bisogno di molta calma per l’italiano, mentre l’agitazione era dialettale, “E noi non facciamo niente, senza testimoni. La Polizia ha le mani legate…”
“Speriamo in Dio, dottò…”
“No, speriamo negli uomini”, concluse Cristiano, con un bagliore crudo negli occhi.

L’architetto Santi parcheggiò in strada, la solita notte popolata di arabi del quartiere San Siro, e nel cortile buio del supercondominio dove abitava la nuova compagna, in attesa che la sua villetta a Paderno Dugnano fosse rifinita, ebbe una sensazione, ovattata: un bambino gli sparò con una pistola dello spazio intergalattico. Per un attimo la notte inghiottì il respiro di Santi, poi riconobbe il piccolo marocchino, e ringhiò: “Vaffanculo, mohammed di merda!”

Il Pugile e l’Ispettore stavano cenando a casa del Gatto, il quale manifestava una certa ansia di sbolognarli fuori. Mangiavano kebab e pizza, mentre Cristiano spiegava di voler prendere in disparte l’architetto, farlo coricare di mazzate da Felice Lo Russo e costringerlo a confessare sotto minaccia: probabilmente non avrebbe pagato comunque, ma almeno la soddisfazione di rompergli la faccia…
Il Pugile si mostrò entusiasta e deciso, e fissarono il tutto per la notte stessa. Il Gatto non li avrebbe seguiti, si disse debilitato dalla lunga degenza, e la sua convalescenza comparve sulla porta in minigonna a pieghe, calze autoreggenti, camicetta sbottonata sotto un cappotto rosso Benetton: aveva la faccia sana e sorridente di Lulù, la convalescenza, un sorriso sincero e pulito, ammiccante al peccato solo nel colore del rossetto. Cristiano e Felice lanciarono al Gatto un’occhiata dubbiosa se deriderlo o mandarlo a cagare.

Santi salì le scale, che nelle case popolari non c’è l’ascensore, e notò che ai suoi passi facevano eco quelli delle corse su e giù di alcuni bambini. Ma non una voce, non uno strillo, solo il rumore di quelle corse singhiozzate per la tromba delle scale. Bussò alla porta di Carmela Zappulla, e quando imprecò che nessuno veniva ad aprirgli, si rese conto di aver bussato alla porta di Duilio Zammataro. Rabbrividì.

Inquieto, salì le scale ancora, il suono di mille organetti hammond sintetici lo assordava acuto ritmato da quei passetti.

Carmela aprì, e non era la donna che aveva scopato fino a quella mattina. Il viso scavato, i capelli in disordine, scalza, con indosso una tuta coperta da pallini di lanugine. Non era più una Milf. Era una madre che s’era resa conto d’aver fatto ammazzare il frutto del proprio grembo. Santi la guardò, irrequieto ed ancora spaventato, ma prima di preoccuparsi per Carmela, si rammaricò che quella sera non avrebbe chiavato. Poco male, coi brutti pensieri che aveva avuto e quel freddo polare non sapeva neanche se sarebbe stato in grado di tirarlo su dritto.
“Che c’è?”, chiese con una sicurezza incrinata da qualcosa.
“Ti rendi conto? Ti rendi conto che abbiamo ucciso i figli miei? Ti rendi conto?”, ed esplose in lacrime.
“Li ha ammazzati quel coglione di tuo marito, i tuoi figli!”, sbottò Santi, “E ci ha fatto un favore, a tutti e due, io non voglio figli miei, figurati i figli suoi!”
“Oddio, aggia accise glie figlie mie…”
“E sta’ zitta, Cristo! O vuoi che ti butti giù dal balcone?”
Poteva sembrare una frase detta così per dire nel trasporto dell’ira. Ma Carmela comprese, qualcosa nella voce, qualcosa negli occhi, che quell’uomo non stava parlando a vanvera, così per dire. L’avrebbe gettata seriamente dal balcone, ed avrebbe testimoniato che s’era suicidata per il dolore della perdita dei figli. L’avrebbe passata liscia, ora che le aveva rovinata la vita, al primo rimorso l’avrebbe annullata, per sempre.
“Sai, amore”, cercò di calmarsi Carmela, “Ho visto Dylan, prima”
“Che?”
“Dylan. Nella sua cameretta. Con Sharon…”
“Tu sei pazza!”

La tazza del cesso gorgogliava. Feti cagati nelle fogne, neonati incastrati nei cassonetti, poppanti strangolati, bimbetti stuprati e sgozzati, in fila, riemersero dalle acque putride del water closet. Le loro carni erano putrescenti, i loro aliti non acidi di latte ma di ratti e rifiuti. Rifiuti! Ecco cosa erano, o perlomeno cosa erano stati. Squittivano rosicchiando la porta del bagno, rotolarono fuori e si arrampicarono sulle pareti del corridoio, fin nella luttuosa cameretta di Dylan e Sharon. Là Dylan e Sharon giocavano, lei con un’imitazione di Barbie, lui sparando a quegli invasori alieni con la sua pistola dello spazio intergalattico.

Il branco di morticini fissava idrofobo Carmela e Santi che attraversavano il corridoio: “Ti dico che li ho visti, guarda anche tu!”, insisteva Carmela.
Santi infilò la testa nella cameretta dei suoi figliastri, accese la luce dell’interruttore, ma la lampadina lampeggiò tre volte e si fulminò. Con una lama di luce infiltrata dal corridoio, Santi entrò nella stanza e, nonostante la sensazione di essere al banco d’accusa in un tribunale sovraffollato, appurò che nessuno era lì. Fu quando Dylan lo mirò in fronte con un raggio fotonico che Carmela lo colpì, alla nuca.
Santi non capì, e non avrebbe mai capito, cosa lo avesse colpito e lo avrebbe ammazzato. I morticini incitavano Carmela, Dylan e Sharon si sollevarono in piedi, a guardar silenziosi l’esecuzione ormai sentenziata. Carmela, con le forbici recuperate poco prima in corridoio di fianco al telefono, colpì di nuovo il suo nuovo compagno, al collo, ed ancora, ed ancora, finchè la testa di Santi non si disfò in colate di materia cerebrale tra fiotti di sangue.
Il primo colpo, la paura. Il secondo, di terrore. Il terzo, ormai è fatta, al quarto, indietro non si torna. Il quinto, la vendetta, il sesto di rimorso, sette colpi fatti d’ansia, otto colpi di nervoso. Al nono, poi, aveva smesso di contarli.
Quando Santi smise di avere qualsiasi tipo di reazione, i morticini, che avevano strillato garrito squittito furiosi ed eccitati come babbuini, si quietarono: raccolsero l’anima dell’architetto e quella di Carmela, ormai condannata, strappandole dai loro corpi vuoti, e zampettarono in fila, seguiti dagli spettri spaesati di Sharon e Dylan, coi loro trofei fino alla tazza del cesso, per trascinarli ai loro inferi e divorarli.
Ecco che fine fanno i bambini quando muoiono ammazzati.

Camporosso parcheggiò in via Zamagna, scesero dalla sua Uno antiproiettili lui ed il Pugile, percorsero via Tracia di fretta a capo chino, decisi. L’ispettore si sarebbe giocato il tesserino, ma era troppo convinto d’avere ragione, di essere nel giusto, contava su questo, e solo per questo azzardava l’azione.
Al citofono non rispose nessuno. Cristiano pensò, sono usciti a festeggiare, e pigiò il pulsante Marchesi risoluto ad aspettare Santi e Carmela sul pianerottolo. Salirono le scale, Camporosso faceva strada. Giunti al piano, per uno strano riflesso, girarono la maniglia e la porta di casa Zappulla si aprì: le luci accese erano smorte, ed in fondo al corridoio Cristiano ebbe la strana impressione di scorgere una fila di gremlins ridacchiare zompettando via veloci.

Cristiano s’era salvato il tesserino: trovò Carmela Zappulla in stato confusionale davanti al cadavere dalla testa maciullata dell’architetto Santi. Forse Santi gli fece meno ribrezzo in quel momento che non nel suo studio. Carmela non parlava e non si muoveva. L’ispettore Cristiano Camporosso avrebbe archiviato il caso Zammataro come strage immotivata, avrebbe mandato la Zappulla in un ospedale psichiatrico, ma non avrebbe mai risolto i due casi, non avrebbe mai avuto una risposta definitiva su quella serie di vite interrotte, sui perché, su che fine fanno i bambini morti ammazzati.
Grazie a Dio.

Wednesday, November 22, 2006

Presentazione_la nuova versione



Benvenuti alla Fiera del Qualunquismo, al circo surreale del Razzismo! Guardate i nostri attori crogiolarsi nel pressapochismo, in questo squallido ed epico fumetto privo di disegni! Il Libro Nero del Gatto, l’ho chiamata, questa storia ambientata nell’Ammalata Ammaliatrice, la Milano che fu nera, gialla, ma mai così policroma e poliglotta. La Milano criminale che trema, odia, e la Milano reale il cui asfalto ho calpestato con la suola delle scarpe.

Che succede quando brucia un Centro Sociale Occupato Autogestito? Chi ne gioisce, chi ne beneficia, chi si sente ferito? E chi se ne accorge? È a questo punto che, affrontando contingenti naziskin, ultras, maruja, chinatown, cinghios, albatros, rumeni, ninja, pulotti, caramba, squatter, punkabbestia, rastoni, avvocati, spettri, imprenditori, kebab, ciclisti, fino a trovarsi nella grande battaglia di Milano, Cristiano Camporosso entra in gioco. Poliziotto raccomandato, interista, non laureato, perdente per scelta o per destino, la burocrazia gli affida il caso contando sul fatto che lui non lo risolverà. Ma Cristiano decide di portare a conclusione qualcosa, per una volta nella vita.

Forte della sua brigata d’amici(un Pugile delle Puglie, traslocatore di Bruzzano; un malmostoso pingue amante di alcool e sigarette dalla Comasina; un annoiato impiegato comunale cinico ed enorme), col Gatto, instabile post-punk anarchico e perdigiorno, reazionario utopista, esperto di nulla, Camporosso indaga, una pista segnata col sangue e le fiamme. E nel mentre il Gatto redige il suo Libro Nero, intriso d’odio e sofferenza, senza mezzi termini e senza buonismi, qualunquista, si, ma qualunquista è il popolo.

1700 sigarette saranno abbastanza per non concludere un cazzo? Ed il Gatto risolverà la sua relazione in bilico sul cavo telefonico con Lulù? Buoni e cattivi sono chiaramente schierati, o nessuno è buono né cattivo?
È più importante farsi domande o darsi risposte?

Una storia di amicizia e città, di cambiamenti e disordini, di sogni infranti e sogni viventi, narrata col ritmo e coi toni del fumetto, malinconica, delirante, sarcastica, ironica, tracotante, a sfiorare l’epica, una storia che sa di vero e surreale allo stesso tempo: la questione, forse, non è quanto il romanzo assomigli alla realtà. Il problema sarebbe se la realtà somigliasse al Mondo Nero del Gatto.

Friday, November 10, 2006

Novità concorsiali

Il Libro Nero del Gatto ha perso da pochi giorni il Premio Letterario "L'Autore" della casa editrice Firenze Libri.
Presto verrà spedito ad un altro concorso letterario, mentre il suo autore comincia a valutare la scelta autoproduzione, mentre frullano in capo molte idee ma nessuna geniale.
Per intanto, ringrazio nuovamente le persone che hanno creduto in me durante la scrittura e dopo la lettura.
Se qualcuno ha qualche idea, la posti pure qui.
Non mi preoccupo, comunque: Camporosso, il Gatto, Trentalibbre, il Pugile, il Brucia e tutti gli altri continuano a consumare kebab ad orari improbabili, continuano a sussistere ad esistenze reali, e prima o poi torneranno a fare capolino tra le nebbie della mia fantasia. Non per vincere, ma come al solito, per sopravvivere alle sconfitte con un sorriso ed un Baffo Moretti.

Monday, November 06, 2006

Fumetto di sigaretta

Ed intanto, le otto tavole del primo comic autoconclusivo del Gatto sono state terminate dalla splendida mano di Stefano Forte. Mancano lettering e colorazione, che sono in mano a Giulia.
Spero presto di potervene mostrare un'anteprima.

Wednesday, November 01, 2006

Il Libro Nero del Gatto

Stereotipata fiera del qualunquismo! Tendone circense del razzismo! Il tutto giostrato con compiaciuto pressapochismo! La questione non è se questo mondo possibile assomigli alla realtà: il problema sarebbe se la realtà somigliasse al Mondo Nero del Gatto!
Un grosso fumetto privato dei disegni, un fumetto sub-eroistico: non-eroi senza poteri, ed anzi, qualora ne abbiano, sono difetti!
Una grossa novità, a proposito, attende l'universo del Gatto. Una novità a china...
Con la scrittura non giudico mai: traggo si ispirazione da personaggi reali, ma è un modo creativo, utilizzato da Arthur Conan Doyle come da Hemingway, i personaggi reali fungono da attori che interpretano, nel mio fantasticare, i ruoli dei personaggi irreali. Ovvio che si somiglino, ma non c'è mai giudizio in loro. C'è considerazione. Fare considerazioni ipotetiche non è giudicare. Giudicare a quanto pare, perlomeno da come si comporta gran parte dei commentatori di questo blog, significa solo condannare o scagionare. Considerare significa lodare un aspetto che piace e biasimare uno che no, soprattutto senza il serioso assolutismo che una certa tracotanza diffusa, senza una ragione pretesa. Oltretutto, l'ultima volta che ho giudicato qualcuno ho scardinato una bicicletta a calci, abbaiato in faccia alla povera di questa proprietaria, pagatole le riparazioni dal ciclista e sentitomi una merda fin'oggi al solo ricordo. Io non giudico, perciò, considero, porto avanti il mio pensiero conscio che sia solo il mio, lo sostengo perchè se no non sarebbe il mio, e non credo, e non mi interessa, di essere per forza nel giusto.
Quando scrivo però, come in ogni altra mia azione, utilizzo sempre il mio nome e la mia faccia. Per onestà e lealtà. Per sconsiderato coraggio e appassionato timore. E perchè lo sbaglio mi umilia e mi frustra ma mi ha sempre insegnato qualcosa -chi intesse morali in proposito si guardi attorno con lucida schiettezza per quattro minuti, potrebbe scoprire di vivere uno sbaglio-.
Comincio ad esser spossato da questo battagliare. L'assedio sfibra l'equilibrio.