Un nuovo racconto del Gatto!
Domenica mattina, ore 9:28.
Sono venuto a dormire alle 5 passate, ma il telefono squilla spietato ugualmente. Impantanato sotto le coperte immergo un braccio nel gelo della stanza e tiro su la cornetta. È Lulù. L’alzabandiera del risveglio si fa turgido e bollente. Se la immagino reggere la cornetta vedo le sue labbra che mi baciano lo scroto col glande pulsante infilato nell’orecchino a cerchio enorme che le pende dal lobo. “Dimmi”, dico imbarazzato. Mi avvisa che se voglio contattarla devo comporre un altro numero, ché la sera prima le hanno fregato il cellulare. “No, cazzo! L’avevi appena preso! Dove?”
Era andata a ballare in Pergola. La Pergola è una casa occupata autogestita, in via della Pergola, appunto, quartiere Isola, dove si va a ballare ad un prezzo d’ingresso proibitivo se considerata l’impronta politica che le si vuol dare. Poi oltretutto fanno pure entrare gratis i negri… “Sono stati quei negri di merda! Ci penso io!”, mi infiammo tricolore e mentre lei cerca di acquietarmi la saluto e butto giù, mi vesto e comincio a radunare la Brigata.
Camporosso no, è poliziotto e quello che voglio combinare non è proprio legale, sebbene sia giusto e doveroso. Comunque, per lui è meglio di no. Il Brucia è zoppo di nuovo, sarà a casa a contare le monetine della sua collezione o a fissare il soffitto per far scorrere il tempo. Il Pugile sarebbe l’ideale, ma non lo trovo, cazzo, da quando è morto la volta scorsa sembra Phoenix dei Cavalieri dello Zodiaco, non esiste più e compare solo nel momento del bisogno o quando non l’hai chiamato. Lupo, col cazzo che chiamo Lupo se si tratta di Lulù: è il semestre che stanno insieme, adesso, ma lei ha chiamato me, e non voglio dare a lui l’occasione di farsi bello di fronte a lei. Trentalibbre. È grande, grosso, oggi non lavora.
Aspettiamo sera, il mercato ne(g)ro di via della Pergola apre solo col buio, di giorno vanno a rubare: i Senegalesi spacciano in gruppetti di quattro e tentano di piazzare refurtive raccolte nel pomeriggio, i Marocchini spacciano di fianco, in via Dal Verme, non si mischiano ma si odiano, e la bella gioventù milanese và a dimenare il culo con la techno in Pergola o a stonarsi d’alcool al Frida, cortile trendy rimesso a locale. Poi escono, vanno dal negro che gli ha appena fatto il portafogli, e con un sorriso amichevole comprano dieci euro di pessima ganja. Gioventù di merda.
Parcheggiamo il Peugeot 806 di Trenta, e chi ti becco? Il mio avvocato, Guglielmo Roggero, che compra il fumo dai Senegalesi. Lo saluto, “Hai una macchia di sugo sulla camicia”, aggiungo. Willie, perché è così che lo chiamo, mi ha difeso al processo in una puntata precedente delle mie disavventure di questi ultimi anni, avevo ucciso un tipo che minacciava me e la Brigata ai tempi della faccenda del Kontenitore, ma è una storia lunga, potrei scrivere 120 pagine word se volessi raccontarla…
Saluto il negro, gli sorrido e rifiuto il fumo, Trenta mi aspetta accanto al suo monovolume, oddio, o si mette a dieta, o diventa un monovolume anche lui, non lo distinguo dall’auto, Willie sta lì con me. “Senegal, vorrei un cellulare Nokia nero, a sportello, ce l’hai?”
Lui ed i suoi soci, sono in quattro, come al solito, si dicono qualcosa in una lingua che pare il verso del tacchino, mi squadrano, non ho l’aria né dello sbirro né del fascio, si lasciano imbrogliare dal mio stile da punk/metallaro/sfigato, dal mio aspetto di Che Guevara denutrito di periferia: sorridono e mi fanno vedere tre cellulari, ma non sono quello che cerco. Sebbene il sangue mi ribollisca nelle vene visiono i telefoni e con una smorfia insisto sul modello che ho richiesto, così chiamano il Lou Ferrigno dell’Africa Centrale e tutta la sua cricca, un supernegro, quello arriva e mette in mostra tutta la vetrina. Lo vedo. Il cellulare di Lulù con ancora impiccato Winnie the Pooh inguainato un costume di Halloween in lattice viola. Afferro il telefonino ed il negrissimo Hulk me lo offre per 30 euro, ribatto “Devo pagare una cosa già mia?”
I negri si allarmano, nervosi estraggono le lame dai loro piumini d’oca colorati, gli occhi si socchiudono in fessure iniettate di sangue, i sorrisi brillanti diventano ringhi bestiali, io un po’ mi cago addosso e gli dico, “Calmo, calmo”, tiro fuori venti euro e glieli piazzo in mano, “Non più di questi”, dico, lui torna a sorridere soddisfatto, io lo mando a fare in culo sottovoce. Chiedo a Willie dove ha parcheggiato, lontano, bene, “Vieni con me, allora”, saliamo sulla macchina di Trentalibbre, io dietro, Trenta mette in moto mentre Willie lo saluta, partiamo, apro il portellone laterale ed accendo il panno della molotov, non effettuo un ottimo lancio verso gli africani, ma si cagheranno addosso. Willie mi dice agitato che non potrà aiutarmi granché, stavolta, al processo, Trenta si complimenta con sé stesso per aver prudentemente coperto le targhe del Peugeot.
Che cazzo, comunque, ho presa in pieno con la bottiglia incendiaria una di quelle merde, cominciano a seguirci a piedi mentre la Torcia Umana di colore rotola in terra. Dei loro compari ci tagliano la strada e ci si parano innanzi, uno coi rasta indossa una tunica colorata che sfiora terra ed è pieno di pendagli con feticci e fotografie incorniciate: ci scatta una decina di foto, tranquillo, con una vecchia reflex Olympus, Willie si preoccupa per una possibile denuncia, invece il santone giamaicano ci fa segno col dito che ci taglia la gola.
I negri si fermano tutti intorno a noi, e ci osservano. Noi tre nella macchina non apriamo bocca e se potessimo forse piangeremmo. Dalla Pergola escono dei fottuti fattoni da Casa Occupata. C’è un gran vociare, ma d’un tratto cala un silenzio sacrale. Lo vedo per primo io, nello specchietto retrovisore. La carbonella di negro alla brace che la mia coscienza rimordeva d’avere ammazzato e non solo spaventato sta arrancando lentamente verso di noi, ancora in fiamme. Sembra un burattino manovrato male. Il Santone Fotografo ha le pupille ribaltate e schiuma idrofobo dalla bocca. Una certa memoria a fotogrammi e vignette mi sussurra nell’inconscio una parola, ma non la colgo subito, al momento sono solo terribilmente terrorizzato. Poi esplode nella mia testa e nel petto mentre la strillo, “ZOMBIE!”, ma Trentalibbre, più sveglio e cinico di me, ha già inserito la retro, impresso la scritta Pirelli degli pneumatici sul cadavere vivente della rediviva Torcia Africana, intrapreso in retromarcia piazza Minniti speronando una vecchietta su una Fiat Punto, e scheggiato verso casa mia, in silenzio. Forse se non ne parliamo non ce lo ricordiamo, forse se non ne parliamo non è mai successo.
Ci barrichiamo in casa mia cagati sotto, più che per quello che abbiamo visto, per l’atmosfera malsana e malevola dello Sciamano e del tizzone negro come il carbone che si rianima e ci viene incontro. Willie, che non legge romanzi, ma solo saggi di entomologia e biologia, fornisce una spiegazione razionale e scientifica dell’accaduto: lo Sciamano avrebbe avuto un attacco epilettico dovuto alla tensione del momento; la scarica d’adrenalina avrebbe reso insensibile alle ustioni ed al decesso Carbonello. Io, che sono un cretino, penso a Romero, ai fumetti, ad una puntata di Starsky & Hutch, continuo a battere i denti percependo intorno a me loa voodoo, Papa Legba, morti viventi. Le foto. Mi spaventano le foto, morire tra atroci dolori dilaniato sulla celluloide da spilloni malefici. Trenta non si scompone, mette a bollire l’acqua per la pasta e s’accende una sigaretta, preparandosi un Campari col bianco.
Mangiamo tanto e beviamo di più. Siamo tutti imbriachi e sragioniamo sul da farsi: Willie si rammarica di aver perso grazie alla mia molotov la fiducia del suo pusher di fiducia, Baba; Trenta ci vuol costituire all’ispettore Camporosso; io vorrei un fucile con proiettili BumBum in argento. Verso le 3, mentre in TV guardiamo una donna nuda con le smagliature che da un divano soddisfa le sciocche fantasie erotico-telefoniche di una voce identica a quella del nostro professore di Filosofia al liceo, qualcosa batte contro le persiane: do un’occhiata alla e dalla finestra, mezzo intontito dal sonno e dal vino, in strada non c’è niente.
Abito in una casa di corte ad Affori, al secondo piano, un non luogo periferico milanese annegato tra cortili di corrieri trasportatori, piccole fabbrichette, tir parcheggiati, cantieri edili in animazione sospesa: di notte, qui, è tutto morto. Solo il buio lacerato da lampioni arancioni, un semaforo frustrato dall’indifferenza dei piloti lunatici, ed un pascolo di auto posteggiate sullo sterrato di fronte casa mia. Vaffanculo!
Noto una trentina di giganti incappucciati accovacciati tra le auto! I loro occhi bianchi son tutto ciò che ne tradisca la presenza! Fanno parte dell’oscurità che ci assedia, poi, da sotto la mia finestra stessa, sbuca in mezzo alla strada un arlecchino intunicato, lo Sciamano!
Lo Stregone mi guarda e ride, non so come faccia a riconoscermi da dietro le persiane. Estrae dalla sua borsa a tracolla colorata mimetizzata sulla tunica variopinta una delle foto che deve averci scattato davanti al Pergola, è una foto di Trentalibbre, lo riconosco perché la foto è grossa come la copertina di una rivista di moda: poi il Santone mi mostra uno spillone e lo infila in mezzo agli occhi di Trenta. Io guardo il mio amico, enorme, massiccio, sembra una delle Due Torri del Signore degli Anelli, che tranquillo, guardando la tv seduto in poltrona, si stropiccia gli occhi. Cazzo!
Ributto l’attenzione al negro dai mille colori, ed ora estrae una foto del povero Willie, il mio avvocato, il mio confidente sentimentale da quindici anni, che adesso sta bucherellando il mio divano con le caccole della canna che si sta fumando con Trenta, e lo Stregone fa il Vudù pure a lui, gli infila uno spillone in gola, un brivido lungo la schiena, mi si accappona la pelle e non ho neanche il coraggio di girarmi a guardarlo, lo sento solo tossire convulsamente, cazzo, cazzo, ho gli occhi inchiodati sullo Stregone Vudù e non riesco a distoglierli, soprattutto perché ho il presentimento di chi sarà la prossima vittima, e difatti, eccomi, una mia foto, un primo piano confuso del mio volto teso, prende tre spilloni, che cazzo, ce l’ha proprio con me, me ne infila uno in un occhio, uno in gola ed uno nelle tempie, avverto tre fitte insopportabili, mi manca il fiato, sento il petto che mi esplode, caccio fuori la lingua perché mi sento soffocare, mi volto verso i miei amici… Trenta intima a Willie di non soffiargli il fumo negli occhi, Willie chiede scusa e si lamenta della scarsa qualità della ganja che gli han venduto, gabbini fecciosi, m’han dato un bidone, impreca. Solo guardando i miei goffi compari impegnati in uno sketch a cui ho fatto l’abitudine m’accorgo che in fin dei conti non sento alcun disturbo, tutte quelle fitte che credo di sentire scompaiono non appena le dubito. Bene, dunque, sono immune al Vudù di arlecchino! Ma i trenta zombie giganti accovacciati ai suoi ordini?
Ora, lo ammetto, sento un brivido alle braccia ed avverto una sensazione di fastidio, come uno stimolo doloroso, al pisello. Come se stessi per pisciarmi addosso. Devo essere più pallido del solito, perché quando mi volto Trentalibbre e Willie mi chiedono che ho. Ho visto un fantasma? “No, degli zombie…”, sussurro a singhiozzo. Allora Trenta si solleva e viene alla finestra, e li vede. Ordina a Willie di spegnere tutte le luci, poi và in cucina e mette a bollire tutto l’olio che trova in dispensa. Mi chiede se possiedo delle armi, recupero la mia maledetta katana, una mazza da baseball scheggiata, un set di Miracle Blade –se lo chef Tony ci taglia le lattine, chissà che può fare alle teste di non-morto-, una fionda, ed una pistola di plastica a pallini di gomma con un puntatore laser che sfalsa la mira di almeno 45°. Willy telefona a Claudio Capurso, appuntato dei Carabinieri e nostro amico da sempre, e mi rendo conto che nell’epoca dei telefonini sarebbe inutile comunque tagliare la linea telefonica ad un assediato. Spostiamo i mobili davanti agli ingressi, rovesciamo i tavoli, serriamo le finestre. Sono le quattro meno un quarto. Che aspettano ad attaccare?
Trentalibbre, schiena contro il muro accanto alla finestra del soggiorno, rompe il silenzio di questa attesa inquieta con una delle sue riflessioni sofistiche: “In un certo senso, li puoi definire davvero morti viventi. Agli occhi della società, non esistono, sono morti, ma ci sono, sono vivi. Sono presenze, spettri. Sono morti che cercano di vivere, e per avere una vita sono costretti a mangiare vite. Non sono cattivi, sono ferini, uomini che non sono più uomini. Un cane idrofobo lo sopprimi. Per loro esisterebbe un antidoto, ma è più comodo lasciar che la malattia decorra, e nel caso diventi nociva, sopprimere il malato…”
Smetto d’ascoltarlo perché avverto un rumore come un presentimento. Sollevo la testa dietro il tavolo rovesciato e butto una fugace occhiata in strada. I miei zombie sono usciti dai loro oscuri nascondigli e si stanno schierando in strada, pronti a stanarci. In mano hanno armi, bastoni e pistole, anomale per dei morti che camminano. Mi viene in mente l’esercito zombie decimato da Napoleone Wilson, sorrido, e lo cito: “Hai da fumare?”, Trenta mi porge una Marlboro media, la accendo, e continuo: “Sono nella condizione in cui ogni giorno è come una bella donna: quando ti accorgi quanto ti è necessario, t’ha già lasciato…”, e mentre concludo incerto che la battuta di Distretto 13 sia proprio così, il fumo mi và di traverso e gli occhi s’impallano.
Al semaforo, cinquanta metri più in là, vedo la mia principessina. È una storia un po’ complessa, ma tenterò di sintetizzarla: Gioia, una mia vecchia compagna di corso, di quando facevo finta di andare all’università, c’è sempre stata attrazione, ma ci sono sempre stati altri rapporti di mezzo; appena lei si laurea, si sposa, e comincia la mia fase di rimpianto, ma che cazzo, mi faccio gli affari miei; poi una sera ci incontriamo in una birreria metal di Sesto San Giovanni e ce lo leggiamo in faccia, e mentre suo marito conversa coi miei compagni di bevuta, io le azzardo in un sussurro: “Domenica, a casa mia, fa finta di essere uscita con le tue amiche”, non aggiungo altro, lei non risponde ed io non attendo risposta. Se vorrà, la vedrò arrivare…
E porco cazzo è arrivata davvero, ma nel momento più sbagliato opzionabile!
Deglutisco rumorosamente, non so più se per il timore dei miei zombi o l’imbarazzo di far incontrare l’oggetto adultero delle mie fantasie erotiche a Trentalibbre e Willie, e prendo una somma decisione: “Chiudete la porta alle mie spalle, io devo scendere in strada!”
Mentre mi preparo a fare la mia incursione, indicando, senza dare le spiegazioni che i miei due amici si danno da soli, Gioia in strada, prendo su la mia Maledetta Katana con l’Elsa di Tigre, ed indosso il mio giubbino di pelle, l’Armatura Ronin, come nel miglior cartone animato nipponico ho le mie armi feticcio. Tiro su anche un paio di palle da baseball, che se le lanci fanno male e comunque fanno fare buona impressione con le ragazze se le infili nelle tasche davanti dei jeans. “Sono pronto! Chiudete, se va male mi rifugio in cantina!”, e sgattaiolo fuori. “Buona fortuna, Gatto!”, risuona alle mie spalle.
Ripeto, abito in una casa di corte, e funziona come un fortino, scendo le scale lungo i ballatoi e mi ritrovo in cortile, mi dirigo al cancello d’ingresso, è come essere nell’oceano in una gabbia circondata di squali. Non so bene cosa fare, ma apro il cancello pedonale e mi getto in strada a spada sguainata, mollo fendenti a caso verso i senegalesi che mi osservano perplessi, penseranno che sono impazzito, e quando realizzano, mentre corro incontro alla mia mogliettina adultera, ringhiano in coro e mi si lanciano addosso, qualcuno mi spara pure, un proiettile mi fischia vicino vicino, ma due elementi incorrono a salvarmi: il primo, sono Willie e Trenta che da casa mia lanciano sull’esercito Vudù secchiate d’olio bollente, sfollandolo in preda a urla lancinanti; il secondo è quello che io chiamo signor Kafka.
Il signor Kafka è un impiegatucolo che abita in via Grazioli, a qualche decina di metri da casa mia. Il signor Kafka soffre di forfora radioattiva, perché magari fa il radiologo a Niguarda, non lo so.Gli acari della polvere di casa sua, nutrendosi di questo particolare tipo di forfora mutante, hanno subito una trasformazione come le Tartarughe Ninja, e si sono ingigantiti. Ogni sera il signor Kafka porta i suoi tre acari, Rambo Commando e Scorpiorosso –infatti Predator e Terminator sono morti sotto un’auto due anni fa- a passeggio ai giardini vicino casa mia. So che la cosa sembra inverosimile, ma io mi rifiuto di pensare che esistano cani così brutti e feroci…
Comunque, gli acari atomici o cani deformi che siano del signor Kafka, a pipì nei dintorni col loro padrone, allarmati dalle urla dei negretti che m’assediano impellenti si presentan nella mischia, azzannando con le lor terribili fauci cosce e sederi degli zombie che mi stanno alle calcagna. Abbraccio la mia erofantasia insaporita di peccato e tradimento, la stringo forte a me, spingo con le palle da baseball per dar un’aria di virilità, lei si stringe a me e sente tutta la mia carica premerle contro l’inguine, mi bacia appassionata, io ricambio, mi volto, la tengo per un braccio e la trascino con me al sicuro nel cortile di casa mia, gli artigli ed i proiettili degli zombi ci seguono e cercano di afferrarci e trascinarci con loro all’inferno, ma con la sola forza della libidine riesco ad aprire il cancelletto, penetrare con Gioia nel cortile, salire le scale tenendola in braccio fino al mio appartamento, e tornare al sicuro tra i miei amici. Le sirene delle auto dei Carabinieri intanto si convoglian da ogni dove tutt’attorno all’armata delle tenebre, li sento scaricarsi addosso tonnellate di piombo a ripetizione, e quando guardo giù in strada, a terra solo i corpi dei miei nemici, e tra gli uomini in divisa, Claudio mi guarda, mi sorride e mi fa cenno col pollice che tutto è a posto, siamo salvi, abbiamo vinto. Mi giro, e dico a Trenta e Willie: “Ragazzi, conoscete Gioia, vero, vi prego di lasciarci un po’ d’intimità, sapete, abbiamo molte cose da dirci e credo lei mi si voglia concedere completamente, in ogni orifizio, stanotte e per sempre, quindi, avete mangiato, bevuto, fumato, forza, toglietevi dai coglioni”, e mentre sorrido a questa mia brusca e scherzosa battuta per eliminare il terzo e quarto incomodo dal mio talamo fedifrago, dal corridoio entra in soggiorno una tunica policroma, e dentro di lei un uomo di colore con gli occhi rovesciati all’indietro, lo Sciamano!, mi salta al collo ed affonda le sue zanne nella mia carotide, sbatto la testa contro il termosifone, poi non ricordo più niente.
Appena il Gatto terminò il suo racconto, Lulù inarcò un sopracciglio e rimase a guardarlo, in silenzio. Poi disse: “Gatto?”
“Dimmi”
“È una cazzata…”
“No, giuro, è andata così!”
“Ascolta, Lupo, sul Corriere della Nera, ha riportato una versione diversa e molto più verosimile dei fatti…”
Lupo era diventato, oltre che ragazzo di Lulù un due o tre volte, giornalista a tempo pieno per un noto quotidiano milanese, ed aveva titolato:
Milano: sgominato spaccio e ricettazione in strada: “Prendevamo ordini dai calabresi
Maxi rissa sfocia in retata antidroga
17 senegalesi coinvolti nel traffico. Il tutto parte da un litigio, disordini al CSOA Pergola
“Ma no, Lulù, è che su un giornale nazionale mica possono dirti che esistono zombi ed acari atomici, c’è un complotto, l’hai visto X-Files, no?, poi sai come sono i giornalisti, no?”
“Gatto?”
“Eh!”
“La tua storia è una cazzata. E tu sei un razzista di merda.”
“Perché? Siamo in un bar cinese!”
“Perché? Negri qua, negri là, a volte dai il voltastomaco a sentirti parlare!”
“Ma vàh, scusa, chiamo le cose col loro nome, no?, sarei razzista a fare attenzione a non chiamarli negri ma far giri di parole tipo ‘di colore’ o ‘nero africano’, in fondo negro è latino…”
“Seeh… e poi perché? Speravi di portarmi a letto con le tue fandonie Macho-Ku-Klux-Klan? Non bastava restituirmi il cellulare?”
“Ma…”
“… che poi magari se fossi stato sincero e meno disgustoso, te l’avrei pure data, ma come al solito, sei tu che rovini tutto… lascia stare, guarda, grazie per il cellulare, e vaffanculo…”Si alzò e scostò la sedia rumorosamente. Uscì senza guardare in faccia nessuno. Gli lasciò solo il conto da pagare.
Con il suo deja vù vorticante in testa, il Gatto si accarezzò i punti di sutura sul collo, seccò la birra e si alzò dal tavolino del Green Bar dove aveva invitato Lulù a bere l’aperitivo. La cinese dietro il banco gli chiese, “Vai a letto?”, il Gatto sorrise e rispose, amaro, “Magari… ci andrei con Gioia…”, avvertì una fitta alla nuca ed un vuoto nel cuore, aprì la porta del bar e cedette il passo ad un africano con indosso una tunica colorata ed al collo pendagli con foto b/n ed altri feticci, il nero gli disse “Grazie”, e lui rispose “Niente”, uscì in strada, accese una sigaretta, sollevò il bavero dell’Armatura Ronin e, con la non-morte nel petto, s’avviò verso casa.
Sono venuto a dormire alle 5 passate, ma il telefono squilla spietato ugualmente. Impantanato sotto le coperte immergo un braccio nel gelo della stanza e tiro su la cornetta. È Lulù. L’alzabandiera del risveglio si fa turgido e bollente. Se la immagino reggere la cornetta vedo le sue labbra che mi baciano lo scroto col glande pulsante infilato nell’orecchino a cerchio enorme che le pende dal lobo. “Dimmi”, dico imbarazzato. Mi avvisa che se voglio contattarla devo comporre un altro numero, ché la sera prima le hanno fregato il cellulare. “No, cazzo! L’avevi appena preso! Dove?”
Era andata a ballare in Pergola. La Pergola è una casa occupata autogestita, in via della Pergola, appunto, quartiere Isola, dove si va a ballare ad un prezzo d’ingresso proibitivo se considerata l’impronta politica che le si vuol dare. Poi oltretutto fanno pure entrare gratis i negri… “Sono stati quei negri di merda! Ci penso io!”, mi infiammo tricolore e mentre lei cerca di acquietarmi la saluto e butto giù, mi vesto e comincio a radunare la Brigata.
Camporosso no, è poliziotto e quello che voglio combinare non è proprio legale, sebbene sia giusto e doveroso. Comunque, per lui è meglio di no. Il Brucia è zoppo di nuovo, sarà a casa a contare le monetine della sua collezione o a fissare il soffitto per far scorrere il tempo. Il Pugile sarebbe l’ideale, ma non lo trovo, cazzo, da quando è morto la volta scorsa sembra Phoenix dei Cavalieri dello Zodiaco, non esiste più e compare solo nel momento del bisogno o quando non l’hai chiamato. Lupo, col cazzo che chiamo Lupo se si tratta di Lulù: è il semestre che stanno insieme, adesso, ma lei ha chiamato me, e non voglio dare a lui l’occasione di farsi bello di fronte a lei. Trentalibbre. È grande, grosso, oggi non lavora.
Aspettiamo sera, il mercato ne(g)ro di via della Pergola apre solo col buio, di giorno vanno a rubare: i Senegalesi spacciano in gruppetti di quattro e tentano di piazzare refurtive raccolte nel pomeriggio, i Marocchini spacciano di fianco, in via Dal Verme, non si mischiano ma si odiano, e la bella gioventù milanese và a dimenare il culo con la techno in Pergola o a stonarsi d’alcool al Frida, cortile trendy rimesso a locale. Poi escono, vanno dal negro che gli ha appena fatto il portafogli, e con un sorriso amichevole comprano dieci euro di pessima ganja. Gioventù di merda.
Parcheggiamo il Peugeot 806 di Trenta, e chi ti becco? Il mio avvocato, Guglielmo Roggero, che compra il fumo dai Senegalesi. Lo saluto, “Hai una macchia di sugo sulla camicia”, aggiungo. Willie, perché è così che lo chiamo, mi ha difeso al processo in una puntata precedente delle mie disavventure di questi ultimi anni, avevo ucciso un tipo che minacciava me e la Brigata ai tempi della faccenda del Kontenitore, ma è una storia lunga, potrei scrivere 120 pagine word se volessi raccontarla…
Saluto il negro, gli sorrido e rifiuto il fumo, Trenta mi aspetta accanto al suo monovolume, oddio, o si mette a dieta, o diventa un monovolume anche lui, non lo distinguo dall’auto, Willie sta lì con me. “Senegal, vorrei un cellulare Nokia nero, a sportello, ce l’hai?”
Lui ed i suoi soci, sono in quattro, come al solito, si dicono qualcosa in una lingua che pare il verso del tacchino, mi squadrano, non ho l’aria né dello sbirro né del fascio, si lasciano imbrogliare dal mio stile da punk/metallaro/sfigato, dal mio aspetto di Che Guevara denutrito di periferia: sorridono e mi fanno vedere tre cellulari, ma non sono quello che cerco. Sebbene il sangue mi ribollisca nelle vene visiono i telefoni e con una smorfia insisto sul modello che ho richiesto, così chiamano il Lou Ferrigno dell’Africa Centrale e tutta la sua cricca, un supernegro, quello arriva e mette in mostra tutta la vetrina. Lo vedo. Il cellulare di Lulù con ancora impiccato Winnie the Pooh inguainato un costume di Halloween in lattice viola. Afferro il telefonino ed il negrissimo Hulk me lo offre per 30 euro, ribatto “Devo pagare una cosa già mia?”
I negri si allarmano, nervosi estraggono le lame dai loro piumini d’oca colorati, gli occhi si socchiudono in fessure iniettate di sangue, i sorrisi brillanti diventano ringhi bestiali, io un po’ mi cago addosso e gli dico, “Calmo, calmo”, tiro fuori venti euro e glieli piazzo in mano, “Non più di questi”, dico, lui torna a sorridere soddisfatto, io lo mando a fare in culo sottovoce. Chiedo a Willie dove ha parcheggiato, lontano, bene, “Vieni con me, allora”, saliamo sulla macchina di Trentalibbre, io dietro, Trenta mette in moto mentre Willie lo saluta, partiamo, apro il portellone laterale ed accendo il panno della molotov, non effettuo un ottimo lancio verso gli africani, ma si cagheranno addosso. Willie mi dice agitato che non potrà aiutarmi granché, stavolta, al processo, Trenta si complimenta con sé stesso per aver prudentemente coperto le targhe del Peugeot.
Che cazzo, comunque, ho presa in pieno con la bottiglia incendiaria una di quelle merde, cominciano a seguirci a piedi mentre la Torcia Umana di colore rotola in terra. Dei loro compari ci tagliano la strada e ci si parano innanzi, uno coi rasta indossa una tunica colorata che sfiora terra ed è pieno di pendagli con feticci e fotografie incorniciate: ci scatta una decina di foto, tranquillo, con una vecchia reflex Olympus, Willie si preoccupa per una possibile denuncia, invece il santone giamaicano ci fa segno col dito che ci taglia la gola.
I negri si fermano tutti intorno a noi, e ci osservano. Noi tre nella macchina non apriamo bocca e se potessimo forse piangeremmo. Dalla Pergola escono dei fottuti fattoni da Casa Occupata. C’è un gran vociare, ma d’un tratto cala un silenzio sacrale. Lo vedo per primo io, nello specchietto retrovisore. La carbonella di negro alla brace che la mia coscienza rimordeva d’avere ammazzato e non solo spaventato sta arrancando lentamente verso di noi, ancora in fiamme. Sembra un burattino manovrato male. Il Santone Fotografo ha le pupille ribaltate e schiuma idrofobo dalla bocca. Una certa memoria a fotogrammi e vignette mi sussurra nell’inconscio una parola, ma non la colgo subito, al momento sono solo terribilmente terrorizzato. Poi esplode nella mia testa e nel petto mentre la strillo, “ZOMBIE!”, ma Trentalibbre, più sveglio e cinico di me, ha già inserito la retro, impresso la scritta Pirelli degli pneumatici sul cadavere vivente della rediviva Torcia Africana, intrapreso in retromarcia piazza Minniti speronando una vecchietta su una Fiat Punto, e scheggiato verso casa mia, in silenzio. Forse se non ne parliamo non ce lo ricordiamo, forse se non ne parliamo non è mai successo.
Ci barrichiamo in casa mia cagati sotto, più che per quello che abbiamo visto, per l’atmosfera malsana e malevola dello Sciamano e del tizzone negro come il carbone che si rianima e ci viene incontro. Willie, che non legge romanzi, ma solo saggi di entomologia e biologia, fornisce una spiegazione razionale e scientifica dell’accaduto: lo Sciamano avrebbe avuto un attacco epilettico dovuto alla tensione del momento; la scarica d’adrenalina avrebbe reso insensibile alle ustioni ed al decesso Carbonello. Io, che sono un cretino, penso a Romero, ai fumetti, ad una puntata di Starsky & Hutch, continuo a battere i denti percependo intorno a me loa voodoo, Papa Legba, morti viventi. Le foto. Mi spaventano le foto, morire tra atroci dolori dilaniato sulla celluloide da spilloni malefici. Trenta non si scompone, mette a bollire l’acqua per la pasta e s’accende una sigaretta, preparandosi un Campari col bianco.
Mangiamo tanto e beviamo di più. Siamo tutti imbriachi e sragioniamo sul da farsi: Willie si rammarica di aver perso grazie alla mia molotov la fiducia del suo pusher di fiducia, Baba; Trenta ci vuol costituire all’ispettore Camporosso; io vorrei un fucile con proiettili BumBum in argento. Verso le 3, mentre in TV guardiamo una donna nuda con le smagliature che da un divano soddisfa le sciocche fantasie erotico-telefoniche di una voce identica a quella del nostro professore di Filosofia al liceo, qualcosa batte contro le persiane: do un’occhiata alla e dalla finestra, mezzo intontito dal sonno e dal vino, in strada non c’è niente.
Abito in una casa di corte ad Affori, al secondo piano, un non luogo periferico milanese annegato tra cortili di corrieri trasportatori, piccole fabbrichette, tir parcheggiati, cantieri edili in animazione sospesa: di notte, qui, è tutto morto. Solo il buio lacerato da lampioni arancioni, un semaforo frustrato dall’indifferenza dei piloti lunatici, ed un pascolo di auto posteggiate sullo sterrato di fronte casa mia. Vaffanculo!
Noto una trentina di giganti incappucciati accovacciati tra le auto! I loro occhi bianchi son tutto ciò che ne tradisca la presenza! Fanno parte dell’oscurità che ci assedia, poi, da sotto la mia finestra stessa, sbuca in mezzo alla strada un arlecchino intunicato, lo Sciamano!
Lo Stregone mi guarda e ride, non so come faccia a riconoscermi da dietro le persiane. Estrae dalla sua borsa a tracolla colorata mimetizzata sulla tunica variopinta una delle foto che deve averci scattato davanti al Pergola, è una foto di Trentalibbre, lo riconosco perché la foto è grossa come la copertina di una rivista di moda: poi il Santone mi mostra uno spillone e lo infila in mezzo agli occhi di Trenta. Io guardo il mio amico, enorme, massiccio, sembra una delle Due Torri del Signore degli Anelli, che tranquillo, guardando la tv seduto in poltrona, si stropiccia gli occhi. Cazzo!
Ributto l’attenzione al negro dai mille colori, ed ora estrae una foto del povero Willie, il mio avvocato, il mio confidente sentimentale da quindici anni, che adesso sta bucherellando il mio divano con le caccole della canna che si sta fumando con Trenta, e lo Stregone fa il Vudù pure a lui, gli infila uno spillone in gola, un brivido lungo la schiena, mi si accappona la pelle e non ho neanche il coraggio di girarmi a guardarlo, lo sento solo tossire convulsamente, cazzo, cazzo, ho gli occhi inchiodati sullo Stregone Vudù e non riesco a distoglierli, soprattutto perché ho il presentimento di chi sarà la prossima vittima, e difatti, eccomi, una mia foto, un primo piano confuso del mio volto teso, prende tre spilloni, che cazzo, ce l’ha proprio con me, me ne infila uno in un occhio, uno in gola ed uno nelle tempie, avverto tre fitte insopportabili, mi manca il fiato, sento il petto che mi esplode, caccio fuori la lingua perché mi sento soffocare, mi volto verso i miei amici… Trenta intima a Willie di non soffiargli il fumo negli occhi, Willie chiede scusa e si lamenta della scarsa qualità della ganja che gli han venduto, gabbini fecciosi, m’han dato un bidone, impreca. Solo guardando i miei goffi compari impegnati in uno sketch a cui ho fatto l’abitudine m’accorgo che in fin dei conti non sento alcun disturbo, tutte quelle fitte che credo di sentire scompaiono non appena le dubito. Bene, dunque, sono immune al Vudù di arlecchino! Ma i trenta zombie giganti accovacciati ai suoi ordini?
Ora, lo ammetto, sento un brivido alle braccia ed avverto una sensazione di fastidio, come uno stimolo doloroso, al pisello. Come se stessi per pisciarmi addosso. Devo essere più pallido del solito, perché quando mi volto Trentalibbre e Willie mi chiedono che ho. Ho visto un fantasma? “No, degli zombie…”, sussurro a singhiozzo. Allora Trenta si solleva e viene alla finestra, e li vede. Ordina a Willie di spegnere tutte le luci, poi và in cucina e mette a bollire tutto l’olio che trova in dispensa. Mi chiede se possiedo delle armi, recupero la mia maledetta katana, una mazza da baseball scheggiata, un set di Miracle Blade –se lo chef Tony ci taglia le lattine, chissà che può fare alle teste di non-morto-, una fionda, ed una pistola di plastica a pallini di gomma con un puntatore laser che sfalsa la mira di almeno 45°. Willy telefona a Claudio Capurso, appuntato dei Carabinieri e nostro amico da sempre, e mi rendo conto che nell’epoca dei telefonini sarebbe inutile comunque tagliare la linea telefonica ad un assediato. Spostiamo i mobili davanti agli ingressi, rovesciamo i tavoli, serriamo le finestre. Sono le quattro meno un quarto. Che aspettano ad attaccare?
Trentalibbre, schiena contro il muro accanto alla finestra del soggiorno, rompe il silenzio di questa attesa inquieta con una delle sue riflessioni sofistiche: “In un certo senso, li puoi definire davvero morti viventi. Agli occhi della società, non esistono, sono morti, ma ci sono, sono vivi. Sono presenze, spettri. Sono morti che cercano di vivere, e per avere una vita sono costretti a mangiare vite. Non sono cattivi, sono ferini, uomini che non sono più uomini. Un cane idrofobo lo sopprimi. Per loro esisterebbe un antidoto, ma è più comodo lasciar che la malattia decorra, e nel caso diventi nociva, sopprimere il malato…”
Smetto d’ascoltarlo perché avverto un rumore come un presentimento. Sollevo la testa dietro il tavolo rovesciato e butto una fugace occhiata in strada. I miei zombie sono usciti dai loro oscuri nascondigli e si stanno schierando in strada, pronti a stanarci. In mano hanno armi, bastoni e pistole, anomale per dei morti che camminano. Mi viene in mente l’esercito zombie decimato da Napoleone Wilson, sorrido, e lo cito: “Hai da fumare?”, Trenta mi porge una Marlboro media, la accendo, e continuo: “Sono nella condizione in cui ogni giorno è come una bella donna: quando ti accorgi quanto ti è necessario, t’ha già lasciato…”, e mentre concludo incerto che la battuta di Distretto 13 sia proprio così, il fumo mi và di traverso e gli occhi s’impallano.
Al semaforo, cinquanta metri più in là, vedo la mia principessina. È una storia un po’ complessa, ma tenterò di sintetizzarla: Gioia, una mia vecchia compagna di corso, di quando facevo finta di andare all’università, c’è sempre stata attrazione, ma ci sono sempre stati altri rapporti di mezzo; appena lei si laurea, si sposa, e comincia la mia fase di rimpianto, ma che cazzo, mi faccio gli affari miei; poi una sera ci incontriamo in una birreria metal di Sesto San Giovanni e ce lo leggiamo in faccia, e mentre suo marito conversa coi miei compagni di bevuta, io le azzardo in un sussurro: “Domenica, a casa mia, fa finta di essere uscita con le tue amiche”, non aggiungo altro, lei non risponde ed io non attendo risposta. Se vorrà, la vedrò arrivare…
E porco cazzo è arrivata davvero, ma nel momento più sbagliato opzionabile!
Deglutisco rumorosamente, non so più se per il timore dei miei zombi o l’imbarazzo di far incontrare l’oggetto adultero delle mie fantasie erotiche a Trentalibbre e Willie, e prendo una somma decisione: “Chiudete la porta alle mie spalle, io devo scendere in strada!”
Mentre mi preparo a fare la mia incursione, indicando, senza dare le spiegazioni che i miei due amici si danno da soli, Gioia in strada, prendo su la mia Maledetta Katana con l’Elsa di Tigre, ed indosso il mio giubbino di pelle, l’Armatura Ronin, come nel miglior cartone animato nipponico ho le mie armi feticcio. Tiro su anche un paio di palle da baseball, che se le lanci fanno male e comunque fanno fare buona impressione con le ragazze se le infili nelle tasche davanti dei jeans. “Sono pronto! Chiudete, se va male mi rifugio in cantina!”, e sgattaiolo fuori. “Buona fortuna, Gatto!”, risuona alle mie spalle.
Ripeto, abito in una casa di corte, e funziona come un fortino, scendo le scale lungo i ballatoi e mi ritrovo in cortile, mi dirigo al cancello d’ingresso, è come essere nell’oceano in una gabbia circondata di squali. Non so bene cosa fare, ma apro il cancello pedonale e mi getto in strada a spada sguainata, mollo fendenti a caso verso i senegalesi che mi osservano perplessi, penseranno che sono impazzito, e quando realizzano, mentre corro incontro alla mia mogliettina adultera, ringhiano in coro e mi si lanciano addosso, qualcuno mi spara pure, un proiettile mi fischia vicino vicino, ma due elementi incorrono a salvarmi: il primo, sono Willie e Trenta che da casa mia lanciano sull’esercito Vudù secchiate d’olio bollente, sfollandolo in preda a urla lancinanti; il secondo è quello che io chiamo signor Kafka.
Il signor Kafka è un impiegatucolo che abita in via Grazioli, a qualche decina di metri da casa mia. Il signor Kafka soffre di forfora radioattiva, perché magari fa il radiologo a Niguarda, non lo so.Gli acari della polvere di casa sua, nutrendosi di questo particolare tipo di forfora mutante, hanno subito una trasformazione come le Tartarughe Ninja, e si sono ingigantiti. Ogni sera il signor Kafka porta i suoi tre acari, Rambo Commando e Scorpiorosso –infatti Predator e Terminator sono morti sotto un’auto due anni fa- a passeggio ai giardini vicino casa mia. So che la cosa sembra inverosimile, ma io mi rifiuto di pensare che esistano cani così brutti e feroci…
Comunque, gli acari atomici o cani deformi che siano del signor Kafka, a pipì nei dintorni col loro padrone, allarmati dalle urla dei negretti che m’assediano impellenti si presentan nella mischia, azzannando con le lor terribili fauci cosce e sederi degli zombie che mi stanno alle calcagna. Abbraccio la mia erofantasia insaporita di peccato e tradimento, la stringo forte a me, spingo con le palle da baseball per dar un’aria di virilità, lei si stringe a me e sente tutta la mia carica premerle contro l’inguine, mi bacia appassionata, io ricambio, mi volto, la tengo per un braccio e la trascino con me al sicuro nel cortile di casa mia, gli artigli ed i proiettili degli zombi ci seguono e cercano di afferrarci e trascinarci con loro all’inferno, ma con la sola forza della libidine riesco ad aprire il cancelletto, penetrare con Gioia nel cortile, salire le scale tenendola in braccio fino al mio appartamento, e tornare al sicuro tra i miei amici. Le sirene delle auto dei Carabinieri intanto si convoglian da ogni dove tutt’attorno all’armata delle tenebre, li sento scaricarsi addosso tonnellate di piombo a ripetizione, e quando guardo giù in strada, a terra solo i corpi dei miei nemici, e tra gli uomini in divisa, Claudio mi guarda, mi sorride e mi fa cenno col pollice che tutto è a posto, siamo salvi, abbiamo vinto. Mi giro, e dico a Trenta e Willie: “Ragazzi, conoscete Gioia, vero, vi prego di lasciarci un po’ d’intimità, sapete, abbiamo molte cose da dirci e credo lei mi si voglia concedere completamente, in ogni orifizio, stanotte e per sempre, quindi, avete mangiato, bevuto, fumato, forza, toglietevi dai coglioni”, e mentre sorrido a questa mia brusca e scherzosa battuta per eliminare il terzo e quarto incomodo dal mio talamo fedifrago, dal corridoio entra in soggiorno una tunica policroma, e dentro di lei un uomo di colore con gli occhi rovesciati all’indietro, lo Sciamano!, mi salta al collo ed affonda le sue zanne nella mia carotide, sbatto la testa contro il termosifone, poi non ricordo più niente.
Appena il Gatto terminò il suo racconto, Lulù inarcò un sopracciglio e rimase a guardarlo, in silenzio. Poi disse: “Gatto?”
“Dimmi”
“È una cazzata…”
“No, giuro, è andata così!”
“Ascolta, Lupo, sul Corriere della Nera, ha riportato una versione diversa e molto più verosimile dei fatti…”
Lupo era diventato, oltre che ragazzo di Lulù un due o tre volte, giornalista a tempo pieno per un noto quotidiano milanese, ed aveva titolato:
Milano: sgominato spaccio e ricettazione in strada: “Prendevamo ordini dai calabresi
Maxi rissa sfocia in retata antidroga
17 senegalesi coinvolti nel traffico. Il tutto parte da un litigio, disordini al CSOA Pergola
“Ma no, Lulù, è che su un giornale nazionale mica possono dirti che esistono zombi ed acari atomici, c’è un complotto, l’hai visto X-Files, no?, poi sai come sono i giornalisti, no?”
“Gatto?”
“Eh!”
“La tua storia è una cazzata. E tu sei un razzista di merda.”
“Perché? Siamo in un bar cinese!”
“Perché? Negri qua, negri là, a volte dai il voltastomaco a sentirti parlare!”
“Ma vàh, scusa, chiamo le cose col loro nome, no?, sarei razzista a fare attenzione a non chiamarli negri ma far giri di parole tipo ‘di colore’ o ‘nero africano’, in fondo negro è latino…”
“Seeh… e poi perché? Speravi di portarmi a letto con le tue fandonie Macho-Ku-Klux-Klan? Non bastava restituirmi il cellulare?”
“Ma…”
“… che poi magari se fossi stato sincero e meno disgustoso, te l’avrei pure data, ma come al solito, sei tu che rovini tutto… lascia stare, guarda, grazie per il cellulare, e vaffanculo…”Si alzò e scostò la sedia rumorosamente. Uscì senza guardare in faccia nessuno. Gli lasciò solo il conto da pagare.
Con il suo deja vù vorticante in testa, il Gatto si accarezzò i punti di sutura sul collo, seccò la birra e si alzò dal tavolino del Green Bar dove aveva invitato Lulù a bere l’aperitivo. La cinese dietro il banco gli chiese, “Vai a letto?”, il Gatto sorrise e rispose, amaro, “Magari… ci andrei con Gioia…”, avvertì una fitta alla nuca ed un vuoto nel cuore, aprì la porta del bar e cedette il passo ad un africano con indosso una tunica colorata ed al collo pendagli con foto b/n ed altri feticci, il nero gli disse “Grazie”, e lui rispose “Niente”, uscì in strada, accese una sigaretta, sollevò il bavero dell’Armatura Ronin e, con la non-morte nel petto, s’avviò verso casa.