Al mio amico Dingo, operatore dell'Anima, appassionato lettore del Supremo Neil Gaiman.
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Aprile 1999
Squilla.
Squilla ancora.
Lei alza la cornetta, non risponde nessuno.
“’affanculo…”
Dicembre 1999
Il telefono. Nero compagno silente, soprammobile amato e temuto ed odiato, supplicato. Squilla. Lo fa per un po’. Quando Diana solleva la cornetta, sente solo un respiro prima che le riattacchino in faccia. “Ancora!”, lamenta lei. Qualcuno sussurra, ancora.
Giugno 2000
Non fa a tempo ad entrare in casa, che qualcosa trilla. È il nuovo telefono, quello a toni, quello con la rotella l’ha dato indietro a malincuore. Quasi non lo riconosce, poi capisce, e solleva la cornetta. Di nuovo nessuna risposta. Come ogni venerdì, da mesi, non ricorda quando sia cominciata. Ha chiesto anche la bolletta trasparente, me alle chiamate mute non corrisponde nessun numero. Addirittura, quelle chiamate non risultano. Il tecnico le ha detto che è un contatto: lei ha sbuffato, ha risposto che non conosceva disguidi tecnici ad appuntamento settimanale. Comunque, ha trovato lavoro, venerdì e sabato, giornata piena come commessa in un negozio del centro. Scarpe. La gente spende un sacco di soldi in scarpe per non andare da nessuna parte.
Gennaio 2001
Sapeva che non sarebbe durato per sempre, era un contratto a termine, ma i padroni del negozio, infami, con gli auguri di Natale l’avevano salutata senza rinnovo. Le avevano consegnata la busta con l’ultimo stipendio esclusa la settimana lavorativa dal 26 al 31, e le avevano detto che si trasferivano ad Ibiza: la figlia viveva lì da qualche anno, aveva aperto un bar chiuso nel giro di sei mesi, poi aveva trovato lavoro come ballerina, diceva di passarsela bene, certo se i genitori avessero potuto raggiungerla, se avessero potuto andare a stare con lei ora che anche questo nuovo lavoro sembrava fallimentare, forse lei avrebbe smesso di ingoiare getti di sperma per un tozzo di pane. Diana non l’avrebbe saputo mai, e non l’avrebbe mai raccontato né al suo gatto, né per telefono ad Alessa (‘senza i, fa meno provinciale’, aveva detto il padre all’ostetrica il giorno in cui lei era nata). Diana aveva scordato quel misto di curiosità, fastidio, rabbia e paura che provava alle telefonate mute del venerdì. Non l’avevano seguita fin in negozio, era passato tanto tempo, non le ricordava neanche più. Il telefono squillò. Era Alessa.
Settembre 2001
Venerdì. Le telefonate mute non arrivavano almeno da quando lei aveva perso il lavoro nel negozio di scarpe. Otto mesi di sollievo telefonico e disoccupazione. Diana s’era appisolata sul divano: il gatto le raschiò il naso con la lingua, forse per avvisarla che di lì a poco il telefono avrebbe preso a trillare. Lei si alzò, fece per andare in bagno, passò accanto al telefono, lo sfiorò con la mano, e quello suonò. Diana trasalì, rispose: “Pronto?”, la voce impostatamente cortese di chi ha lavorato in un negozio.
“Sono la voce delle telefonate mute. Che ne dici se ci vedessimo, che so, per una birra?”
Sabato. Certo, non era stato un invito romantico. Non puoi invitare una donna a bere una birra: è come chiederle di ruttare. Come invitarla a mangiare una fejoada messicana, di certo le staresti lontano dal culo per un paio di giorni. Gli uomini credono che le donne non reggano l’alcool, che non lo gradiscano, quindi la voce delle telefonate mute o voleva scoparla ubriaca, o aveva compreso da tempo che le donne bevono, cagano, ruttano, ed adorano il cazzo.
Comunque, la birra le andava, le andava che fosse la voce a pagarla, le andava di scoprire che faccia avesse la voce, le andava anche di fare qualcosa di diverso una sera che non fosse andare a vedere un blockbuster da Alessa o reggere il moccolo a lei e Claudio, le andava che Alessa credesse lei avesse un uomo. E le andava, in fondo, anche di conoscerlo, un uomo.
Non era un uomo. Questo, innanzitutto, deluse Diana. Era un gatto, un gatto grigio fumo stropicciato. Insieme ad un corvo con la cravatta ed un fermacravatta d’oro con sopra scritto Dingo. Almeno, l’aveva scelta dello stesso colore del becco, la cravatta. Insomma, le due bestie, entrambe col manto delle tonalità più scure del fumo, stavano sedute al bancone della locanda in cui l’aveva invitata la Voce, sugli sgabelli dove avrebbero dovuto essere l’uomo ed il suo cilindro nero. Diana non avrebbe potuto, per le proprie ristrettezze economiche, ma decise che forse avrebbe ordinato comunque una birra: sedette accanto al gatto acciambellato ed al corvo che la fissava, e cominciò a scorrere la lista. L’oste rispose al telefono, la guardò, guardò annoiato corvo e gatto e rispose che era arrivata. Diana lo spiò cercando di nascondere la faccia tra i nomi delle birre nella lista, quello le si avvicinò e le disse: “Puoi ordinare tutto quello che vuoi, ragazza, a quanto pare pagano loro…”, ed indicò il felino ed il volatile. Lei si voltò a cercare le persone indicate dalla mano dell’oste, e quando si rese conto di chi fossero, ordinò una Harp con molta schiuma e ammutolì.
Non era un uomo, ed aveva ordinato un Jack Daniel’s. Questo, in secondo luogo, stupì Diana: il corvo, non aveva capito come, aveva ordinato un Jack Daniel’s ed ora ci infilava il becco dentro, sollevava il bicchiere e sorseggiava l’ambra del whisky. Poi si mosse il gatto: si sollevò dalla sua posizione a ciambella, si stiracchiò puntando le zampe anteriori ed inarcando la schiena, carezzò Diana con la testa, fece un paio di fusa e saltò giù dallo sgabello. L’Uomo con il Cilindro entrò proprio allora, il gatto gli si fece incontro e gli si strusciò contro gli stivali in pelle nera. L’Uomo col Cilindro sorrise, un ampio sorriso giallo in mezzo ad un volto nero come la fuliggine. A lato del sorriso, un vecchio sigaro fumante in coltri spesse. Sedette sullo sgabello lasciato libero dal gatto.
Diana era un gran bel tipo: non era bella secondo i canoni di bellezza della fine del ventesimo secolo, ma era un gran bel tipo. Portava i capelli corti e tinti d’uno strano color porpora, impossibili a pettinarsi e perciò mai spettinati; aveva il seno piccolo, ma ben plasmato; e soprattutto, aveva un bellissimo sedere, sempre primo classificato di categoria nell’annuario clandestino redatto dai maschietti del suo liceo sugli attributi fisici delle ragazze della scuola. Era pallida, e questo faceva risaltare le sue labbra porpora come i capelli e carnose, e gli occhi parevano fessure d’ebano. Non fumava e detestava il fumo degli altri. Al sigaro del negro non importava.
Il Dingo seccò il Jack e svolazzò sull’appendiabiti a bracci a lato del banco: l’Uomo col Cilindro poggiò sul suo sgabello il copricapo, svelando dei lunghi capelli ricci e neri della stessa consistenza del legno. Diana pensò che in fondo il fumo non le dava così fastidio. L’uomo sembrava avere un’età indefinibile tra i venti ed i trecento anni, e questo la metteva un po’a disagio. Fu lui a parlare per primo.
“Grazie per essere venuta… anche se forse devi ringraziarmi tu per averti invitata…”, la voce del negro vibrava potente e bassissima nell’aere.
“Chi sei?”, chiese Diana.
“La Voce delle Telefonate Mute. Il Destino. Il Fato. Papa Legba. Chi vuoi tu”, e di nuovo quel suo sorriso giallo papiro.
“Bene, e che vuoi?”, Diana avvertiva un terribile senso di disagio e paura di fronte all’energumeno nero che le sedeva di fianco. Il gatto le saltò in grembo. L’Uomo col Cilindro rise forte, come un colpo di tosse.
“Senza mezze parole… Allora lo sarò anch’io. Dunque, le tue telefonate mute non erano di nessun amante troppo timido per parlare. Di nessun ex amante dispettoso. Di nessuna persona col microfono rotto che dovesse dirti le verità assolute della tua esistenza. Ero io.”
Diana arrossì delle sue fantasie svelate: “Che chiamavi a fare?”, rispose di getto.
“Chiamavo per controllare che tu abitassi ancora lì. Per noi è diventata dura, non abbiamo più lo stesso potere di un tempo, ora, quando andiamo a raccogliere qualcuno, dobbiamo andarci in macchina, i più sfortunati a piedi, e dobbiamo cercare il suo indirizzo sull’elenco del telefono. Perlomeno non paghiamo la bolletta…”
“Io continuo a non capire… che te ne frega a te dove abito io?”
Il negro rise: “Oh, ragazza, non potresti capire neanche se volessi. Io sono Papa Legba, e faccio solo il mio lavoro, come lo fanno tutti gli altri poveracci come me, da quel ricchione greco di Thanatos alla francesina anoressica con falce e sigaretta: raccogliamo le anime dei morti. Solo che io a volte i morti li faccio camminare…”, lo disse come se stesse ammettendo una marachella.
“Ma che cazzo stai dicendo? Tu saresti l’angelo della morte? Sei scemo?”
“Si…”, l’Uomo col Cilindro continuava a sorridere, “E si…”
Diana sbiancò. Poi, incredula, disse: “Dunque, sono morta?”
“Oh, no, mancano ancora un paio d’anni… è che a furia di sentire la tua voce per telefono mi è venuta voglia di incontrarti…”
“Un paio d’anni? Mi tocca crepare a ventotto anni? Cristo, mi tocca morire zitella…”, l’umana paura della morte prendeva possesso delle sue ginocchia, ed ogni dubbio razionale veniva respinto dalla figura irreale che le parlava di fianco. Il negro rise come se la cosa fosse buffa e nel ridere vibrò: “Ehi, calma, mancano ancora un paio d’anni, ma non si muore mai davvero…”
“Cazzo, due anni…”, fece un sorso di Harp e si zittì, poi chiese, con sospetto, “E che cazzo vuoi adesso, da me, oltre rovinarmi i prossimi due anni?”
“Papa Legba non rovina niente a nessuno”, soffiò il fumo fragrante del sigaro, “Papa Legba offre patti, affari per chi può aiutarlo a vivere meglio. Papa Legba porta la morte, e dona la non morte. Papa Legba sceglie chi prendersi, e tu sei mia giurisdizione. Papa Legba ti offre tre strade per sfuggire alla morte: la prima è uccidere Papa Legba, ma non è possibile uccidere chi domina la morte; la seconda è camminare nel mondo dei vivi da morta, ma Papa Legba assicura che è la via peggiore, marcire da non vivi; la terza è amare Papa Legba dall’erezione dura come il frassino, opzione consigliata; la quarta…”
“Avevi detto tre strade.”
“Tre è il numero perfetto, le cose devono sempre venire tre a tre: la quarta è collaborare con Papa Legba, assumere il suo ruolo nell’attività di ritiro, fare in modo che egli abbia un poco di riposo. Papa Legba vuole che tu scelga ora la tua strada.”
Diana lo fissò, come se non fosse riuscita a capire una sola parola vibrata dalle labbra carnose del negro; Papa Legba rinforcò il cilindro in testa, ed infine, nel silenzio totale di Diana, tuonò solenne: “Bene, la tua scelta è fatta… peccato, è tanto che non faccio l’amore con una donna… viva intendo… Hai scelto di diventare assistente di Papa Legba, ed in fondo te ne ringrazio infinitamente. Dingo ed il Gatto sapranno introdurti al tuo nuovo lavoro. Sei assunta.” S’alzò, sorrise del suo sorriso giallo, e se ne andò.
Diana ebbe solo il tempo di chiedersi se il negro fosse un pazzo necrofilo e se avesse davvero ancora solo due anni per trovare marito e lasciarlo vedovo, prima di rendersi conto che gatto e corvo fossero spariti e la Harp fosse finita. Ordinò allora un’altra Harp a spese “del tipo nero che era qua”, e solo quando, sfiorando la mano del barman per afferrare la pinta, vide accasciarsi a terra l’uomo dietro il banco e la cameriera ai tavoli chiamare l’ambulanza e gli infermieri affermare che non ci si spiegava come ma le funzioni vitali dell’uomo avevano sfiorato lo zero, solo allora cominciò a temere che tutto quel che era accaduto non se lo fosse soltanto sognato.
Il gatto ed il corvo la seguirono in strada. Lei se ne accorse, ma non ebbe reazioni di sorta, solo continuò a camminare. Tornò a casa, li chiuse fuori, ma non sembrò servire a nulla, loro semplicemente erano il buio dentro l’appartamento e quando accese la luce del soggiorno l’aspettavano ormai da tempo. Il corvo s’era versato del gin Larios, il gatto s’era semplicemente acciambellato sul divano: lei buttò il cappotto su una poltrona, e gli si sedette accanto, lui si stiracchiò, le strusciò la testa su una mano, e si riacciambellò. Dormirono entrambe profondamente, finché il sole non scacciò la notte.
Diana non ebbe sogni. Il corvo finì il gin. Il gatto sparì verso le sei. Dalle tapparelle filtravano alcuni raggi di sole ed il rumore del traffico di Milano. Erano le otto del mattino, era troppo presto, dal momento che non aveva un lavoro. Il problema forse era che fosse lunedì, mentre avrebbe dovuto essere appena cominciata la domenica: lei si rese conto di aver perso qualcosa proprio osservando scorrere il fiume di lamiere sotto la sua finestra, qualche decina di metri sotto, mentre sorseggiava del tè alla menta. Accese il televisore per controllare la data, e mentre ascoltava le notizie del giorno dopo, che era proprio lunedì, ma nove giorni dopo il sabato trascorso col negro, il corvo le porse un bicchiere di gin, ed afferrandolo lei si rese conto che le sue unghie erano diventate nere, come quando andava nei locali dark a dar mostra delle sue forme, e che stava accendendo la sigaretta che il corvo le aveva offerto. Stabilì che tutto era troppo assurdo, stava ancora dormendo, ma la cosa oltre a spaventarla la eccitava, la eccitava parecchio, sentì un brivido tra le gambe ed andò a guardarsi allo specchio: i capelli porpora s’erano macchiati di alcune ciocche nere che la rendevano una candela dalla fiamma color sangue, ed il viso le si era fatto più pallido, e quello sulle unghie non era smalto come si era augurata, e la sigaretta in effetti la trovava gustosa, e quando si guardò negli occhi, le fessure sottili color dell’ebano, lo specchio si spezzò in vari frammenti. Lei sorrise, carezzò il riflesso moltiplicato del suo volto fino a tagliarsi, non uscì molto sangue dal dito ferito, lei lo mise sotto il getto d’acqua del rubinetto, e vide l’acqua corrente imputridirsi e diventare torbida mentre fuggiva nello scarico del lavandino. Il telefono squillò.
Era Alessa.
“Claudio è uno stronzo!”
“Ciao, Alessa… che è successo?”, Diana era abituata a questo genere di conversazione telefonica, e non la trovava per niente stimolante. Per questo tirò il cavo fino in soggiorno e si mise alla finestra afferrando per il collo la bottiglia di gin.
“Ieri sera… siamo andati a ballare… e lui non ha fatto altro che parlare con una ragazza con la maglietta dei VnVNation… io gli ho chiesto di venire a ballare e lui invece è rimasto lì a parlare con ‘sta puttana… e tu dove cazzo eri finita che è una settimana che ti cerco… comunque, adesso basta! Gli ho detto che –CLIC-“, fine della conversazione. Diana voleva bene ad Alessa, ma in fin dei conti aveva proprio rotto i coglioni, e non era quello il momento. Il gin era finito, da prima che lo prendesse lei: si girò, guardò il Dingo, e quello le sorrise strafottente. Il telefono squillò.
Era il suo nuovo capo, il suo nuovo impiego.
Doveva darle alcune spiegazioni, il negro. Lei le pretendeva. Quello rise di gola, e le suggerì di mettersi comoda. “Papa Legba è un loa dei culti voodoo haitiani e africani. Io sono soltanto un Papa Legba, sono arrivato in Italia con le prostitute nigeriane da dieci euro a pompino, e sono cresciuto coi cubani ed i domenicani fino a diventare l’uomo bellissimo che hai visto…”
Diana non rise. Era in un casino più grande di lei: “Ascolta, come vuoi che io diventi un demonio voodoo, che sono nata a Niguarda?”
“Oh, non capisci. Il mio è un mestiere come tanti, ed altri fanno il mio stesso mestiere in tutto il mondo. La Bella Dama, Caronte, Thanatos, ce n’è un’infinità, perché gli uomini a morire sono tanti… Siamo angeli della morte, impiegati del trapasso, raccogliamo anime per chi ci crede, le altre le lasciamo a terra. Poco importa se il morto è Cristiano, Indù, Buddista, Ebreo, Musulmano. Certo, gli arabi poi ci restano male che dall’altra parte ci saranno 5 vergini in totale, ma li carichiamo tutti sul Ferry Boat di Caronte, e vanno tutti in villeggiatura forzata nello stesso posto. E poco importa chi è l’incaricato dell’accompagnamento. A me piaci tu, e ti ho assunta. C’est bien?”
“Ed ora tutto quello che tocco muore? Che sistema di merda è?”
“Sei tu che non sei capace, bimba!”, vibrò la voce del negro, “Puoi toccare chi vuoi e scoparti chi vuoi, basta non pensare alla morte! Capisci? Ti fai pompare da un maschio e pensi Lo Uccido, e quello ci rimane. È un metodo complesso, devi padroneggiare bene i tuoi pensieri, ma è possibile, io lo faccio, ad esempio.”
“E perché non sanguino? Perché ho dormito nove giorni? Perché non ho fame?”, rafficò isterica Diana.
“Le funzioni vitali del tuo corpo sono sospese, non ne hai bisogno. In realtà sono solo rallentate di migliaia di volte, invecchierai ed avvertirai la fame e la voglia, non sanguinerai copiosamente ma stillerai una goccia di sangue ogni dieci minuti, nel contempo le carni impiegheranno mesi a rimarginarsi, ed ogni anno per il tuo corpo sarà come una sola giornata. Compris, mademoiselle? E 9 giorni perchè le cose vengono tre la volta, tre per tre, che fa nove, non?”
“Perché hai chiamato?”
“Per dirti di prepararti, ma petit chat noir. Allenati su tutto quanto ti ho detto, è l’unico compito che hai per ora. Goditi questi giorni come le tue ultime vacanze, bella…”
E riattaccò.
Con Gatto e con Dingo furono mesi di allenamento concentrato e sfrenato divertimento. Diana portava avanti la sua vita come al solito, con Alessa e Claudio a bere e ballare e litigare, e portava avanti la sua morte in segreto, i soldi li recuperavano chissà dove il micio col corvo, lei poteva osare ogni cosa senza ripercussioni. Più acquistava sicurezza, meglio le andavano le cose, un sacco di ragazzi la corteggiavano, ogni tanto un’agenzia la pagava profumatamente per posare in servizi di moda dark o fetish, e non invecchiava e non ingrassava e poteva fumare seicento sigarette o bere litri di alcool senza alcun malore. Solo una volta s’era portata un tipo a casa che mentre glielo spingeva dentro da dietro aveva cominciato a sferrarle cazzotti sui reni chiamandola troia, e lei per sbaglio l’aveva ammazzato, ma era più rammaricata per essersi scopata uno stronzo che per averlo freddato. Al cadavere pensarono Gatto e Dingo, non si sa come, ed il periodo magico proseguì. Fino a quella maledetta serata in cui Alessa fu mollata da Claudio.
Alessa era disperata, al telefono. Claudio l’aveva tradita ed oltretutto l’aveva mollata per quell’altra troia, la solita storia. Ma stavolta lui non aveva invocato perdono, aveva rotto e ricominciato con un’altra. “Per favore, Diana, vieni con me, voglio strapparle i capelli, alla puttana, vieni con me!”
“Dove?”
“Stasera Claudio e la Troia vanno alla festa del Boga a Cesano, sono invitata anch’io, voglio ammazzarla!”
“Bèh, al massimo ci sono io”, ironizzò Diana, “Ok, andiamoci, passi tu?”
“Passo subito!”
Tra le lamiere incandescenti, in mezzo alla superstrada Milano-Como, Diana rivedeva Alessa strillare e sterzare tentando di evitare quell’auto che le tagliava la strada, una vecchia Ford berlina nera. Poi tutto si confondeva, la loro auto che capottava, il motore che s’infiammava, la pioggia che non bastava a spegnere quel fuoco. E Diana che, senza cintura di sicurezza, veniva sbalzata fuori dall’abitacolo, tanto non poteva morire più, e si feriva rotolando sull’asfalto bagnato, che cazzo, non si sarebbero rimarginate più, ci avrebbe impiegato mesi a chiudere quelle ferite…
Diana si sollevò, e guardò disarmata l’auto slabbrata, informe, in fiamme, qualcosa che pareva Alessa che ancora strillava sebbene ne fosse rimasto ben poco. Zoppicando, sotto la pioggia lenta e costante Diana si approssimò al rottame. Non c’era niente da fare.
La Ford nera tornò in retro. Diana si voltò, furiosa, decisa a giustiziare gli assassini della sua amica, e rabbrividì. Un tipo magrissimo, incappucciato, stava poggiato al cofano della Ford fumando una sigaretta, distratto dai suoi pensieri, dal lato del guidatore, con una lunga falce poggiata alla spalla. Il Negro, con un sorriso giallo stampato dietro il sigaro, era sceso dal lato del passeggero e le disse: “Niente male come primo impiego, eh?”
Diana non rispose, sentì soltanto la rabbia rapirla e spingerla al collo di Papa Legba, ma questi proseguì: “Quanto tempo è passato, dal nostro primo incontro, ricordi? Due anni. Ricordi, ma belle? Stasera tu muori, e diventi la Morte. Fantastique, non?”
Diana guardò nel metallo ritorto quale sarebbe stata la sua fine se non fosse scesa a patti con la Morte o i suoi agenti, e mentre Papa Legba l’accompagnava a raccogliere l’anima della sua migliore amica, prenderla per mano e condurla fino alle banchine dell’Aldiqua per mandarla Aldilà, mentre Alessa la guardava spaurita e muta senza capire granché, Diana pianse la prima lacrima e si sentì già stanca di quello sporco mestiere, mestiere di manovalanza. E s’accorse solo allora che, se aveva accettato lavoro dalla Morte, era soltanto perché amava la Vita.
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4 comments:
fin dove ho letto promette bene...chissà se anche le mie telefonate finiranno così?! hai tirato fuori un sacco di vecchi amici eh? bravo...mi ci voleva dopo le storie con i bambinelli! ciao chicco
(domani lo finisco...ora mi occhi implorano pietà)
Carino, ma il personaggio mi sembra un po' deboluccio. Comunque, potrei sbagliarmi perchè è parecchio che non frequento la lingua francese, mi pare che chat sia maschile, anche se parli di una gatta, quindi dovrebbe essere 'mon petit chat noir'. Se un francofono sta leggendo si faccia sentire per confermare o smentire.
Effettivamente, sarebbe utile una correzione del francese da X-Men che ho utilizzato nel racconto (grazie Gambit). Nella mia ignoranza ho pensato che chat rimanesse uguale al femminile, e bastasse declinare il pronome possessivo.
Il personaggio è deboluccio perchè appartiene al sesso debole.
Grazie, Veto!
Al prossimo racconto, presto, su questi monitors!
mmm, non so...fin troppo gaiman forse...mmm, sesso debole (!!!), sei tu che non sai scrivere di una donna!!!..beh magari ne si parla a voce.cia
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