Monday, October 30, 2006

...sognava di vendere parole, ed intanto le regalava...

L'armatura ronin, fetida, lercia, lucida di grasso e usura, la indossava con orgoglio, e rispetto. Ogni piccola cicatrice, ogni graffio sul cuoio dell'armatura, rappresentava una storia, e la reputava una bella storia, perlomeno, la Sua storia. La indossava oggi, rappresentava il sedimentarsi di ogni esperienza nella sua anima e nel suo corpo. Ci affrontava il futuro, ogni secondo, ogni giorno, senza fare un cazzo, certo, perchè la vita ti cade addosso, ti piove addosso, se sei disposto a bagnarti, la gusti appieno in ogni minuzia, altrimenti, apri un ombrello fatto di imposizioni, ti rintani in una casa che chiamano dignità, stato sociale, e diventa lavoro, titolo, auto, soldo, sesso, guardi piovere fuori, e racconti a te stesso che chi è fuori a bagnarsi è sfortunato, svantaggiato. Non vive davvero. Non ha le palle per entrare nella fortezza prigione che qualcuno, ghignando, chiama società.
Lui camminava sotto la pioggia, sognava di vendere parole, ed intanto le regalava. Ogni tanto intravedeva qualcuno alla finestra osservarlo e biasimarlo. Non gli veniva neanche da rompergli i vetri a sassate. Gli faceva pena, perchè non poteva uscire, convinto che la pioggia fosse sporca, convinto di voler stare a morire nella sua bara di pay-tivù e (in)dipendenza, convinto che uscir dalla routine ogni tanto fosse libertà, senza capire che la libertà è semplicemente un altro tipo di routine. La routine del fà-come-ti-pare.

La tragicomica favola del neo-fascismo

L’altro giorno, insieme al Brucia, il Gatto ha visto un film di Carlo Lizzani del 1976 intitolato “San Babila ore 20: un Delitto Inutile”. Le sue impressioni sono state che il film fosse tecnicamente ottimo, con una struttura strepitosa che anticipava di vent’anni la drammatica giornata dell’Odio di Kassovitz. Un film che trova il suo unico difetto nell’inverosimiglianza cialtronesca dei personaggi, ridotte a macchiette caricaturali e subdolamente faziose del movimento neofascista. Il film rendeva grotteschi e ridicoli luoghi comuni sulle destre: brutti, ottusi e cattivi, i fascisti si muovono in branco, hanno perversioni sessuali tipo provare l’orgasmo solo usando a dildo un manganello, usano violenza per coprire le proprie vergognose debolezze, sono dei codardi; i rossi, dal canto loro, sono figure dignitose ed eroiche, equilibrate, un comunista da solo tiene testa a trenta fascisti armati, i comunisti praticano l’amore romantico che i fasci non comprendono praticando solo lo stupro.
Il Gatto accende una sigaretta appena rollata e sottolinea che non condanna l’ideologia di fondo del film, non perché sia giusta, ma perché le ideologie sono roba che o le rispetti tutte o nessuna. Lui non ne rispetta nessuna. Condanna il macchiettismo parziale con cui viene connotato il drammatico fenomeno sanbabilino.
È un film di valore, comunque, per alcune idee, piccole, come la polizia connivente che sempre presente ignora premeditatamente ogni tipo di scontro politico, e grandi, come la caccia ed il delitto inutile finali, tra l’altro narrati con maestria cinematografica.
Dunque, un film, conclude il Gatto, che sarebbe stato pure bello se non rovinato da quel dogmatismo critico di un certo modo ottuso di fare politica a destra (vedi Renzo Martinelli con Porzus, ad esempio) e a sinistra. Un buon thriller, girato bene, ambientato in una distopia che eccede il realismo straripando in una favola, tragica per temi e intreccio, comica nello studio parodistico di personaggi portati non all’estremo, ma oltre.

Wednesday, October 25, 2006

Milano sta morendo! (Neve Nera)

Andate sul Quartier Generale del Collettivo Kalashnikov, cliccando sul link a lato dello schermo. Leggete il post del 25.10.06. Ed allora conoscerete tutta la storia.
La storia di come è cominciato tutto. Anche il Libro Nero del Gatto. La storia di quattro ragazzi che cominciarono a suonare per gioco e per gridare. La storia di un sedicenne che si sentiva come se stesse accarezzando i testicoli del mondo pronto a strizzarli per stenderlo ai suoi piedi, ignaro che invece avrebbe passato il resto dei suoi giorni in una fellatio imposta. Una disfonia intitolata 101%Odio, Milano AnarcoCrustCore, il preludio, una storia finita e mai dimenticata, la prima storia.
Dal KCHQ potrete scaricare tutto il materiale reperibile di questa fase fondamentale della mia vita. Vi consiglio di farlo. Sennò mando il Pugile a casa vostra, e sono volatili per diabetici.
PS_grazie a Sarta e Puj per aver pubblicato la retrospettiva.
PPS_se non si fosse capito, 101%Odio era il nome del nostro primo gruppo musicale, in cui io urlavo.

Tuesday, October 24, 2006

Teto sei il più dritto! E delle tue critiche faccio tesoro perchè mi indicano il cammino, sebbene sia opposto a quello che consigli...
L'Anonimo, quello con la A maiuscola, è supremo.
A chi mi accusa di patetismo rispondo: "Povero Chicco..."
Restate sintonizzati, che avrò presto novità...

Wednesday, October 18, 2006

Martedì

Sono accadute alcune cose, martedì.
La prima, in ordine cronologico, è che ho avviata la conclusione del racconto pilota di Camporosso, spero entro un mese di terminarlo e proporvelo su questo bloggo.
Poi sono stato a Villa Litta.
La sera ho trovato in viale Certosa, grazie a Giulia, un pub molto carino, una versione pulita e attraente del Nobel, di nome Black qualcosa, comunque è un irish pub, lo riconoscete, che offre birra a 4 euro (!), con 6 (sei!) varietà e fa pure tabaccaio quindi è proprio un posto strafigo dove passare la serata del pigro perdigiorno. Si dice abbiano pure il Risiko, ma se non rosiko, io a Risiko ci giuoco solo coi Carabinieri del Libro Nero del Gatto.
La cameriera di questo pub è una ragazza bellissima (si, si, è bellissima!) e deliziosa, simpatica e cordiale, dai lunghi dredd neri e gli occhi intensi, un'amica di Giulia, Michela. E questo splendido angelo metropolitano marchisgiano sta leggendo, tra un turno di lavoro ed una lezione, il mio romanzaccio.
Comunque, Michela abita in via Cannero ed ogni tanto scorge lo sbarluccichio della pelata di Raul.
Ma la cosa più importante è: BIRRA A 4 EURO!!!

Tuesday, October 17, 2006

Polizziottesco!

Da sempre appassionato al poliziesco all’italiana, fin da piccino quando mio zio Michele mi costringeva a seguire la serie di tutti i film con Maurizio Merli, Franco Nero e Tomas Milian facendomi da balio ad ogni mia influenza alle elementari, sebbene lui poi preferisse Giuliano Gemma e Bud Spencer, ho conservato una sorta di affetto misto a interesse per quel magnifico periodo cinematografico grazie alle ricerche cinematografiche del Collettivo Kalashnikov.
Sicchè ieri sera, grazie ad un nastro vhs avariato e rancido prestatomi dal Doktor Puj, ho conosciuto quello che mi permetto di definire il poliziottesco assoluto.
Si tratta de Il Grande Racket di E. G. Castellari, una pellicola del 1976 che per protagonista ci presenta un Fabio Testi (!) perfettamente a suo agio nel ruolo di un maresciallo di polizia frustratamente schierato contro un racket che impesta Roma fin nelle ossa.
Credo che probabilmente Walter Hill si sia ispirato all’incipit del film di Castellari per alcune scene de I Guerrieri della Notte, come riprese come la serie di fermoimmagine per presentare il Marsigliese, boss dell’estorsione, con musichetta funky piovuta dal niente deve avere per forza influito sui registi dei pulp ridoloni alla The Snatch. E la struttura ad anello del Grande Racket riesce a rendere perfettamente l’idea di umiliazione del senso di Giustizia fronteggiata dalla società, dal popolo, negli anni di piombo. Qui Testi fa si capire che il Poliziotto è Solitudine e Rabbia, non come il bel chiomato Merli.
Quello che colpisce è la sceneggiatura di ferro del film, che riesce a rendere l’idea di un’epopea compressa in due ore, mantenendo sempre un ritmo serrato e teso. E poi…
E poi questo è il blog del mio romanzo, quindi sfrontatamente mi permetto. Certo i personaggi di Castellari sono drammatici, mentre i miei son tragicomici, ma vedere Testi che non riesce mai a concludere un cazzo, oppresso dai superiori, perdente per condizione, riuscire a fare sempre una scelta che per colpa di altro si rivela sbagliata, mi ha posto davanti ad un Camporosso serio. E vedere Testi che a quel punto, perso tutto, mette su una squadra di perdenti e perduti, mi ha fatto pensare un poco alla Brigata Camporosso. E vedere Testi che poi comunque alla fine forse vince, ma forse non vince un cazzo, bene, era proprio una delle sensazioni che volevo rendere, ma trent’anni fa, su un registro e su tematiche diverse, c’erano già arrivati. Che dire poi della manipolazione della massa comunista per minacciare un supermarket che non vuol pagare il pizzo, dunque saccheggiato in nome del proletariato da ingenui che ingrassano invece il cancro della civiltà? E di quando il popolo, becero e bovino, si lascia influenzare dalle menzogne dei fomentatori delle masse per il linciaggio di un rapinatore inerme ed inoffensivo?

Il Grande Racket è il polizziottesco assoluto. Là in alto, con lui, stanno altri film, che però si distaccano dalla propria definizione per irrompere nel noir o nel thriller. Il magnifico Milano Odia-La Polizia non può sparare, di Umberto Lenzi, un nero che racconta del delinquentastro, e per questo ancor più pericoloso, Giulio Sacchi/Tomas Milian; il totale Milano Calibro 9, di Fernando di Leo, un nero che deifica nel pantheon degli antieroi l’unico Ugo Piazza/Gastone Moschin; ed il crudissimo Cani Arrabbiati-Semaforo Rosso di Mario Bava, thriller spietato e senza speranza con un grandioso Don Backy. Si, si, quello di Pregherò.

TROMAnzo

Questa è la brillante definizione che Danielino ha dato del Libro Nero del Gatto.
Spero di non scoprire che l'anonimo di ammazzailgattoammazzailgatto è il Dingo, perchè potrei spennargli la bionda chioma che sto morendo dalla curiosità, che è femmina, ma è anche felina!

Tuesday, October 10, 2006

5 Copie Calde di Stampa!

5 nuove copie sono pronte. Chi ne abbisogna me le chieda. Chi può far copie mi faccia delle copie. Venite venite al circo Gallone, il circo del qualunquismo e del razzismo! Ridete o piangete, leggete, comprate, pensate, ciò che più è importante, Pensate, e Sentite...

Monday, October 02, 2006

Ronin7


Questa avrebbe potuto essere una delle immagini del Gatto. Poi non lo è stata, ma non si sa mai.
Se in linea ci sono ragazze che vogliono uscire con me, per favore fatelo! [messaggio promozioanale]

Sunday, October 01, 2006

Mezzo Racconto Pilota, e nacque Camporosso Cristiano, ispettore

Questo è un racconto pilota incompleto, che scrissi per mettere Camporosso in Polizia. Infatti Camporosso in partenza doveva essere un investigatore privato. Comunque, ecco a voi il caso per ora irrisolto di due bimbi fucilati dal padre suicida...

“Buona sera dottor Camporosso”, esordì l’appuntato Gemmi mentre apriva la porta dell’appartamento di via Tracia al suo superiore.
“Gemmi, non sono laureato, non sono nessuno, sono qui per raccomandazione solo per prendere la michetta, quindi chiamami Cristiano e facciamola finita…”. Camporosso, ispettore della Polizia Criminale, per caso e per forza, trent’anni in ottanta chili di muscoli rilassati, avvolto per il lungo in uno spolverino blu che pareva raccolto per la strada, era bonario, schietto, ed ancor più sarcastico. Aveva studiato poco e male, s’era costruito una cultura strana tra romanzi all’italiana e film di Castellari, spolverata di fumetti ed altra non-cultura, e dopo dieci anni di squat e centri sociali presi sempre senza impegno, aveva partecipato al concorso per entrare in Polizia come fosse stato quello del Dixan, solo per i soldi e senza vere intenzioni: sta di fatto che uno zio della sua fidanzata ad libitum era poliziotto, e trovandolo tra i nominativi dei risultati non eccelsi, l’aveva spostato tra i primi dieci privilegiati. Gli amici l’avevano preso per il culo fino all’isterismo, quando l’avevano visto in divisa. Ma dopo il primo stipendio, Cristiano non ci fece più caso.
Ora Cristiano Camporosso era ispettore, perché non era comunque uomo senza qualità, e la divisa poteva smetterla se non nelle occasioni formali, e per il suo carattere s’era guadagnato l’occhio buono dei subordinati, e quello storto dei superiori. Per questo Gemmi rispose: “Dottor Camporosso, lo sa, è più forte di me…”
“Allora non chiamarmi, e dimmi solo che è successo qui.”
“Un macello. Il padre ha preso a fucilate i due figli, dieci e cinque anni, e poi s’è sparato in faccia. Nessun sopravvissuto. I cadaveri sono ancora di là, dove li ha trovati la vicina. De Carli è andato ad informare l’ex moglie dell’assassino.”
“Posso vedere i corpi?”
“Certo… si tenga forte, è roba da brivido…”

Camporosso entrò nella camera adiacente all’ingresso in silenzio, ed in silenzio si mise a studiare la scena, immobile sulla soglia. Vedeva un uomo, seduto con le spalle alla finestra con la faccia ridotta a poche frattaglie; un bambino di circa dieci anni col petto dilaniato ed una pistola dello spazio intergalattico di plastica in mano, riverso supino un paio di metri di fronte all’uomo; quindi scorse la piccolissima mano vicina al suo piede destro, un altro bimbo, molto più piccolo del primo, sdraiato prono con un braccino portato in avanti, in direzione della porta, la schiena spaccata da quelli che parevano due colpi di piccone, ed invece erano solo due proiettili sparati da un padre disperato. E disgraziato. Si, perché, pensò Camporosso, solo un padre disperato può arrivare a mangiarsi i suoi cuccioli. E comunque, decise, il suo stomaco avrebbe digiunato anche quel giorno.

“Sigaretta”, chiese. Gemmi rispose porgendogli un pacchetto intero. Cristiano lo aprì, ne estrasse una, la portò alla bocca e l’accese, sbuffò una abbondante boccata di fumo, restituì il pacchetto a Gemmi, e cominciò: “Qual è la prima versione dei fatti?”
“Abbiamo già interrogato la vicina, la signora…”, Gemmi sfogliò un blocco note piccolissimo che teneva nella mano guantata, “… Lo Russo.”
“E che dice, questa signora Lo Russo?”
“Allora… alle ore 17 circa avrebbe sentito i bambini correre giù per le scale ed entrare in casa del padre.”
“Ce l’hanno un nome, questi bambini?”
“Sharon, la bimba di dieci, Dylan, il bimbo di cinque.”
“Che nomi del cazzo… ma i genitori erano stranieri?”
“Nessuno dei due. La madre si chiama Carmela Zappulla, il padre si chiamava Duilio Zammataro, direi che stanno più a sud di lei, dottore, ma comunque in Italia…”
Camporosso sorrise, chinandosi sul corpicino del piccolo Dylan Zammataro: “E quindi?”
“Appena entrati, ha sentito tre spari, poi un quarto: è corsa a vedere, la porta dell’appartamento sul pianerottolo era aperta. Quando è entrata ha trovato i corpi così come li vede ora lei.”
“Impressioni?”
“Io la penso così, dottore: il padre era divorziato, e la madre abitava due piani qui sopra. Era geloso ed ha sparato ai figli per fare uno sfregio all’ex-moglie.”
“Plausibile. Dov’è Markic?”
“Il dottor Markic dovrebbe arrivare ora assieme al fotografo.”
“Bene. Ci metterà un po’, c’è un sacco di traffico. Quando arriva, chiamami. Io vado di sopra dalla madre dei bimbi… c’è De Carli, no?”
“Già.”
“A dopo…”

Camporosso salì i due piani a piedi: sul pianerottolo aveva incontrato la disponibilità eccessiva della signora Lo Russo, che a quanto pareva voleva farsi interrogare di nuovo da lui. Lui, cortesemente, la tranqullizzò elogiandone la chiarezza espositiva nell’esposizione. Due piani più sopra, De Carli fumava una sigaretta davanti alla porta della ex-signora Zappulla.
“De Carli, solita incapacità a comunicare notizie spiacevoli, eh?”
“Oh, buon giorno dottor Camporosso… io stavo solo… cioè, facendomi coraggio, non so… non so come dirglielo…”
“Fammi, un favore, De Carli: c’è una signora, giù, la signora Lo Russo, vai da lei, fatti offrire un caffè, e cerca di evitare che diffonda la notizia. Alla signora ci penso io.”

“I suoi bimbi sono morti. Il suo ex marito li ha presi a fucilate, poi s’è sparato.”
“Come, scusi?”
“Ho detto, Camporosso, Polizia Criminale: i suoi bimbi sono morti, il suo ex li ha fucilati e s’è sparato pure lui.”
“Come?””Ho detto, Camporosso, Polizia, i suoi bimbi sono morti a fucilate…”
“Ho capito, ho capito!”
Camporosso sentiva l’odore delle persone. E quando la signora Carmen Zappulla gli aveva aperto la porta di casa, il fiuto gli aveva imposto di essere crudo.
“Prego, entri…”
Carmen Zappulla era una signora oltre i quaranta anche ben tenuta, fresca di tinta nero corvino, pantajazz neri aderenti ed un top di pelo acrilico fucsia con sopra una enorme croce nera a pendaglio dal collo: una attempata adolescente con degli osceni stivali di pitone bianchi col tacco.
“Grazie.”
“Posso offrirle qualcosa?”
“No, grazie, sa, i cadaveri dei bambini ti bloccano l’appetito…”
“Ah…”
L’atmosfera effettivamente s’era fatta surreale: in un decadente condominio popolare, in un monolocale scalcinato un padre aveva ammazzato i propri figli; due piani più sopra la madre dei bambini, una versione degradata, volgare ed involontaria di Cindy Lauper, in un’enorme appartamento arredato sicuramente da un navigato progettista d’interni, dalle pareti sobrie ed i mobili smussati agli angoli e varia oggettistica di design in esposizione, accoglieva un poliziotto privo del filtro del tatto che le spiegava come erano morti i suoi bambini.
“E quando è successo?”
Camporosso guardò delle lancette nere che spuntavano direttamente dal muro, segnavano le 18 e 15: “Circa un’ora e un quarto fa.”
“E dove sono?”
“A casa di suo marito”, Cristiano estrasse una sigaretta spiegazzata dalla tasca interna dello spolverino.
“Ah…”
“Dov’era lei un’ora e un quarto fa?”, chiese Camporosso, poi accese la sigaretta.
“Ero qui, in casa…”, la Zappulla gli porse un posacenere.
“Qualcuno può confermarlo?”
“Il mio compagno, l’architetto Santi…”
“Ed i bambini?”
“I bambini hanno ricevuto una telefonata dal padre, gli ha chiesto di scendere… mi hanno chiesto il permesso ed io ho detto che andavano pure…”
“Senza permesso non sarebbero morti. Vuol vederli?”
“Certo!”, rispose Carmen Zappulla, d’un tratto sbalenando fuori dal suo stato di ebetismo intellettuale.
“Andiamo.”

Mentre Camporosso e Carmen Zappulla scendevano le scale, Markic, il dottore della scientifica, ed il fotografo salivano. I quattro si incontrarono davanti la porta di Duilio Zammataro, un povero cristo bastardo che aveva ucciso i figli per far dispetto alla moglie che puttaneggiava con un architetto. Si salutarono, poi entrarono nel monolocale, mentre dietro la porta di fronte la signora Lo Russo raccontava a De Carli della nuora, Cristina, che aveva sposato anche lei uno di polizia, ma di giù, la trattava come a regina, lei stava a casa, ma da brava ragazza madre di famiglia, non come quella prustituta della moglie di Duilio, che s’era cercata i soldi e credeva di essere tornata bambina lei, e i figli in strada, Cristina no, stirava, lavava, cucinava, tutto benissimo, e De Carli pensò che la prossima volta avrebbe fatto l’uccello del malaugurio, piuttosto che andare a prendere caffè e mal di testa da un’altra signora Deodata Lo Russo.


“Gemmi, per favore, un’altra sigaretta…”
“Prego, dottor Camporosso!”
Cristiano accese la sigaretta, poi chiese a Markic: “Allora?”
“Che cazzo m’avete chiamato a fare, si vede ad occhio nudo, quello senza faccia ha sparato ai due bambini, li ha fatti fuori sul colpo e s’è sparato. Ora del decesso, un’ora e mezza fa. Porca puttana, un’ora in macchina per un lavoro di venti secondi!”
“Sei pagato anche tu per questo. Faccio entrare la madre…”
Cristiano spinse la porta della stanza e chiamò la ex signora Zappulla: quella scattò dentro, ed anzi, ancor prima di essere entrata nel locale, cominciò a strillare, fortissimo, sfrenatamente, agitando la testa e strappandosi la chioma tinta con le mani. Gemmi e Markic la raccolsero da terra, inginocchiata, e la riaccompagnarono sul pianerottolo, poi su fino in casa. Cercarono di calmarla, ma le sue grida attirarono comunque l’attenzione di tutto il palazzo. Decine di persone affluirono sulle scale. Cristiano buttò il mozzicone in terra, lo calpestò, e bussò a casa Lo Russo. Disse a De Carli di far pure portare via i cadaveri, e poi raggiungerlo in macchina. Aveva parcheggiato proprio di fronte al cancello di quel palazzo di via Tracia.

Cristiano aveva una Fiat Uno d’antiquariato, nel senso che ormai la carrozzeria era metallo fossile. La usava come ufficio mobile quando si muoveva, e comunque, di solito, amava trascorrere la domenica in casa, ed il resto della settimana chiuso nella macchina parcheggiata da qualche parte. Ora stava lì, seduto al posto di guida, dopo aver comprato le sigarette sottobanco al bar di via Paravia insieme ad un caffè, e fumava meditando, coi finestrini chiusi, mentre a Milano pioveva una sera di gennaio. Faceva un freddo cane.

Duilio Zammataro aveva ucciso i figli a fucilate. Carmen Zappulla aveva accolto la Polizia allo stesso modo in cui i liberi professionisti accolgono la Guardia di Finanza. Con diffidenza, fino a nascondere il dolore; se anche ce n’era. Non c’erano dubbi su chi fosse l’assassino: ma Cristiano aveva dei dubbi su chi fossero le vittime, e sul motivo di tale macello. E prima di archiviare il caso, voleva delineare al meglio la forma di questi dubbi.

De Carli scese in strada appena prima che arrivasse l’ambulanza con le sirene a morto. Ascoltò qualcosa da Cristiano, quindi l’ispettore avviò il motore e partì, mentre il giovane poliziotto lo salutava accondiscendendo a qualche richiesta. E quando le due ambulanze portarono via i tre cadaveri, uno per ogni misura, in strada rimase una pantera, con dentro due giovani poliziotti, De Carli e Gemmi, a mangiare un McBacon ed un McFish, bevendo Coca Cola sgasata sotto la fredda pioggia di micropolveri ed acqua gelida di Milano.

Preparativi
Cristiano Camporosso tornava in ufficio dopo un pomeriggio movimentato, con in una mano un pacchetto di Diana Blu, nell’altra un sacchetto di plastica da cui veniva odore di falafel e kebab e spuntavano una bottiglia di Mecca Cola con, nascosta in un tovagliolo, una Moretti da 66. Era stanco, nauseato, ed affamato. Salutò alcuni colleghi, e si infilò nel suo stanzino, a cenare con la scusa di redarre il rapporto del delitto di via Tracia. Il kebab con le patate fritte sopravvisse ancora un paio di minuti, poi fu la volta del panino di falafel, quindi accese una sigaretta e stappò la birra Moretti con l’accendino. Accese il computer. Cliccò due volte sull’icona di Double Dragon II, e si mise a giochicchiare, con la sigaretta in bocca ed il fumo negli occhi. Pensava.

Furono De Carli e Gemmi a distoglierlo dal punk vestito di rosso. Camporosso pigiò immediatamente il tasto ESC lasciando sul monitor la schermata di Word. Accese una sigaretta, diede un sorso di birra, si alzò in piedi e chiese ai due poliziotti sull’attenti, bagnati: “Allora?”

“Allora solo freddo, dottore…”, rispose Gemmi, prendendo la sigaretta che gli porgeva Cristiano.

“Dunque l’architetto, uscito secondo le testimonianze del portiere del palazzo circa cinque minuti prima che arrivasse la Polizia, non è tornato a casa, perlomeno per cena. Ma se avessero ammazzato i figli di tua moglie, De Carli, tu ti tratterresti al lavoro?”
“Non credo proprio”, rispose accendendo la sigaretta offertagli dal suo giovane superiore.
“Appunto. Avete scoperto intanto dove sia lo studio di questo Santi?”
“Qualcuno ha detto in Bovisa, forse è professore…”, rispose Gemmi, che da quando aveva acceso la sigaretta aveva perso la marzialità dell’attenti.
“Benissimo, domattina andiamo a trovarlo, De Carli, raccogli informazioni. Io nutro una convinzione, più che altro un dubbio che è una convinzione: Zammataro è un assassino, spietato, ma folle e disperato. Sono convinto che qualcosa o qualcuno l’ha portato all’estrema decisione di ammazzare i figli. Ora, se io fossi disperato, non verrei a lavorare, come ha fatto Zammataro. Starei chiuso in casa a tracannare Jack Daniel’s, a fumare MS, forse andrei anche a puttane, ma cercherei di problematicizzare ulteriormente la mia esistenza, per distruggermi e farmi schifo. Quando ti fai schifo, e solo allora, puoi ucciderti. A meno che tu non lo faccia per fuggire. L’omicidio si compie per rabbia, calda o fredda; il suicidio per disperato odio verso sé stessi, o per paura del futuro… sedetevi pure, ragazzi… insomma. Semplicemente, io so chi ha ammazzato i bambini, e probabilmente so anche perché. Ma così, a pelle, è tutta questione di pelle, come direbbe Lino Banfi, la Zappulla mi sta sulle palle e sento, così, intuito femminile, che non me la racconta giusta. So che probabilmente perderemo tempo e basta, ma per le prossime 72 ore voglio concentrarmi su quella troia sfatta, sul compagno laureato, e capire perché uno spazzino di 42 anni con la passione della caccia, unico modo di sfogare le tensioni familiari, prende e ammazza i figli. Ecco tutto.” Prese la Moretti e sorseggiò, dunque accese un’altra sigaretta, e si risedette dietro la scrivania. “Domani, io e De Carli andiamo a parlare con l’architetto. Tu, Gemmi, insieme al dottor Russo, ti fai di nuovo un giretto in via Tracia, in borghese, vai al bar di via Paravia, a quello di piazza Selinunte, ascolti, prendila come una vacanza, ma senti che dice la gente. San Siro è come un paesello, anche se ormai è terra magrebina. Vedrai che qualche notizia interessante viene fuori…”
Gemmi e De Carli conoscevano la sporadica logorrea di Cristiano, per questo si erano seduti ancor prima del suo invito. Nonostante questo, ascoltarono le istruzioni con attenzione. Si fidavano ciecamente del dottor Camporosso. Come Camporosso si fidava di Russo Pasquale, un mastino pugliese alto un metro e sessanta, per 103 chilogrammi di potenza macinatoria nelle braccia e nelle mani.